E fu così – dicevo – che mi presentai con le mie (scarse) competenze di quarta ginnasio all’esame di Analisi Matematica di Ingegneria.

E cosa poteva capitarmi, se non essere cacciata con ignominia?

Alla quarta lanterna, dopo più di novanta minuti a zampettare sulle stesse quattro pietre nel bosco, ho optato per un dignitoso ritiro, più che altro perché ho improvvisamente realizzato che la gente in macchina con me aveva una vita e avrebbe gradito non pernottare sul prato del ritrovo per aspettarmi.


Bubo Cup stage 2: Larry VS carta “Postojnska Jama”, 20.07.2013 – Open B

Nei giorni e nelle ore precedenti la gara, che si annunciava impegnativa anche prima di apprendere che il percorso della Open era lo stesso della WA, Zzi si raccomanda di non correre, di non provare a tirare azimut, neanche adesso che ho capito come funziona, di non lasciare il sentiero prima del necessario, di aspettarmi forme del terreno simili e pertanto poco riconoscibili, di non imbelinarmi giù da un burrone e di non perdere mai e poi mai, per nessun motivo al mondo, il segno sulla carta e il contatto col terreno.
Ribadisco che non sono io quella che ha insistito per partecipare, ma che, se è per farlo stare tranquillo, rinuncio e sto a casa, ma non attacca.
Anche gli altri membri della nostra giovane, ma rispettabile società, appresa la notizia della mia partecipazione, si affannano di raccomandazioni, fra le quali la più ricorrente è anche la più inutile: non correre. Segue, quasi di conseguenza, “non perdere il contatto col terreno”; questa raccomandazione è superflua perché non c’è pericolo che io lo instauri (il contatto col terreno), ma è almeno opportuna.

Sul posto, anche la Riccia Spiccia (nel senso che è veloce), che è una Corvonero, si raccomanda di non correre e non perdere il segno.
Ho capito, pensate tutti che io sia mona. I fatti vi danno ragione, e io apprezzo la premura, ma un po’ di ottimismo non guasterebbe.

In partenza

Bardata di tutto punto – vergognandomi come una ladra – prendo la mia cartina e procedo verso la svedese.
Sembra la carta del Veneto stampata a specchio.
Non c’è il triangolo.
Probabilmente non c’è il triangolo perché anziché la carta dei boschi sopra le grotte di Postumia, mi hanno dato quella del Veneto, stampata a rovescio.
Anche ammettendo che non sia la carta del Veneto stampata a rovescio, si sono dimenticati di stampare il triangolo, oppure – cosa molto meno probabile – io non lo vedo.
Per scrupolo, leggo i punti a ritroso finché non lo trovo. Il numero più basso che vedo a colpo d’occhio è un tredici; dopo un paio di minuti buoni indovino un quattro e da esso, effettivamente, risalgo al triangolo; il che mi dà rassicuranti informazioni sull’accuratezza del tipografo.

Non so voi, ma io non trovo mai il triangolo, quando prendo la carta.
Neanche quando so dov’è, quando, cioè, fuori dal gazebo della partenza vengono affisse un paio di cartine senza percorso per permettere agli atleti di raccapezzarsi prima, e il luogo è circondato da un’inconfondibile autostrada, da una parte, un altrettanto inconfondibile gigantesco lago, dall’altra, da un recinto non valicabile dalla terza e la carta si sviluppa in una direzione sola, alla base della quale sta una chiazza gialla che altro non può essere che il prato della partenza, neanche a quel punto – dicevo – riesco a vedere il triangolo quando prendo la carta. È buffo, perché sono capace di individuare una racca su una pezza di stoffa fantasia a quattro metri al buio, ma non un triangolino fucsia su un foglio sotto il mio naso. Dev’essere una specie di daltonismo selettivo.

Mi volto per dare un ultimo sguardo al mio splendido e crudele sposo, e lo vedo guardare nella mia direzione insieme alla Riccia Spiccia, la porzione più giovane della cui Promettente Prole partiva al mio stesso minuto. Quello con l’espressione più preoccupata è lui.

Lanterna 1

Trovato il triangolo, trovo anche la 1, almeno sulla carta. È in tanta mona, che nel sotto-gergo diatopico del gergo orientistico parlato nella nostra giovane, ma rispettabile società, significa che è a Tron di Dio.
Mi faccio un’idea della direzione, ma nella mia mente echeggiano le raccomandazioni di Marko con la K (scelte conservative!) e della società tutta (non uscire dai sentieri!), così individuo il percorso più sicuro per raggiungerla; o, almeno, così credo.

Al modico prezzo di qualche decina di metri in più, un pratico sentiero conduceva alla lanterna per una via pressoché infallibile. Io lo vedo, all’incirca, dopo i primi cinquanta minuti di gara, che dunque impiego a cercare la lanterna dove essa non era stata posata, avendo tentato l’approccio dalla parte opposta.

Nell’ora che trascorro nei pressi dell’enorme dolina, con una mano che regge la carta e l’altra su un fianco a pensare “Ciò, ah, epùr son vignuda su de là, perciò ‘désso son qua per fórza” e a spaventarmi da sola per il fatto che penso in triestino, faccio amicizia con tre quarti dei partecipanti, perché la zona è infestata di lanterne (anche se io non ne vedo neanche una) e passano tutti di là. Dopo la prima mezz’ora sono in grado di dare indicazioni per la sessantatre in tre lingue, ma nessuno ha visto la trentasei.

A questo punto le opzioni sono:

  • ritirarsi – è quella che ha più senso, ma alle supergare slovene il ristoro è sempre costituito da acqua (credo piovana), non ha senso sbattersi per arrivarci presto;
  • tornare al sentiero e ricominciare – sarebbe la nona volta, è da malati di mente pensare che all’improvviso funzioni;
  • sedersi su un sasso a piangere – ma con le lenti a contatto è un casino, e poi chissà che cose schifose ci sono per terra;
  • urlare “aiuto”;
  • domandare indicazioni;

Scelgo una via di mezzo fra le ultime due, sfruttando una splendida diciottenne spagnola, dialogando ad altissima voce con la quale manifesto di non avere la minima idea di dove ci troviamo esattamente, con lo scopo di impietosire chi passa. Un paio di W50 fanno finta di non capire il nostro dramma, il primo maschio che passa (a velocità supersonica) inchioda, torna indietro, e ci posiziona alla perfezione. Probabilmente gli abbiamo inculato il podio, ma se aveste visto la ragazza, converreste che più che una perdita di tempo, era un investimento per il futuro.

Ora che so dove sono riparto per la uno.
Non la trovo.
Torno indietro.
Finisco dove ero prima, ma la lanterna non c’è.
Eppure il paesaggio combacia grossomodo con la carta.
Certo, è quasi un’ora che il paesaggio combacia con la carta e ho attraversato sì e no otto paesaggi diversi, ma stavolta dobbiamo esserci, se non altro per esclusione.

Mi infilo nel sentiero che esce dalla radura per vedere se è quello in carta; ne percorro abbastanza da convincermene, torno indietro e mi persuado con tutte le mie forze di essere nel bianco meno sassoso incluso nel cerchietto del punto uno.
Non ho idea di quale dei pochi sassi che vedo sia quello che il cartografo ha deciso di segnare con il triangolino nero, così decido di provarli tutti.
Il secondo è quello giusto (era anche quello che ritenevo più probabile, si sappia!) e – miracolo – dopo qualche metro c’è anche quello al cui lato sud è collocata la lanterna.

Mi pare che sia trascorsa un’ora esatta dalla partenza, ma allo scarico scoprirò che era passato ancora più tempo.
Mi ritiro, dunque, ma un’occhiatina alla due vado a darla, giusto per dire che ho visto un altro pezzo di bosco oltre a quello intorno alla grossa dolina rocciosa.

Il piano è tornare sul sentiero, quindi basta andare in discesa. Per capire dove si passa, seguo il bel ragazzo abbronzato con la tuta azzurra.
Il bel ragazzo abbronzato con la tuta azzurra sparisce dietro una frasca e ho il forte sospetto che fosse un’allucinazione, e intanto mi ritrovo piantata come un palo in una pietraia.
Non sono mai stata qui!
Maledizione! Mi sono persa di nuovo!
Cazzo, ma non è possibile che mi perda ogni quattro passi! Eppure questo posto è nuovo, è totalmente n… Toh, guarda, è il sentiero ripido dal quale sono salita settanta minuti fa… beh, è passato talmente tanto tempo che è normale non ricordarsene.
C’è un altro bel ragazzo abbronzato alle pendici di questo sentiero, stavolta vestito come il cassonetto dell’indifferenziata.
È Zzi!!!

Ora che Zzi sa che sono viva, potrei anche fare più di una lanterna, prima di ritirarmi, ma meno di cinque.

Mi dirigo sicura verso la due, compiendo la più conservativa delle scelte possibili.
Siccome mi sento in colpa perché sono stata sostanzialmente ferma per un’ora, mi lavo la coscienza corricchiando sul sentiero. Larry che corre produce il caratteristico suono strumpe-tump strumpe-tump, che la dice lunga sull’ampiezza della sua falcata e sulla reattività del suo passo.

 

 

Two, three, four, hey!

Sulla seconda e terza lanterna non c’è nulla da dire: il punto del sentiero dove infilarsi – per andare alla due – è lampante, appena messo piede nell’erba vedo la lanterna e l’unico motivo per cui controllo il codice è che non è possibile che l’abbia trovata così bene.

Per la tre tento un azimut con lo spirito del “tanto più di prima non mi posso perdere e almeno faccio pratica”. Ci sono troppe pietre per andare dritta, ma la lanterna è talmente vicina che riesco a tenere un occhio sulla traiettoria e, con mia stessa incredulità, indovinare la dolina nella quale è nascosta. Con raffinata capacità di lettura della carta – e soprattutto con un rapido sguardo all’ambiente – arguisco che la via più sicura è da sotto.
Da sopra, sento provenire rumore di deficiente che si butta a punzonare dall’alto.
Vediamo chi è il mona che per risparmiare quindici secondi rischia una caviglia… Zzi!

“Ohu! Fai il giro! Cazzo, Zzi, fai il giro, non venire giù di lì che non si passa! Belin, ma mi ascolti? Passa di quaaaah!”
Intanto, Zzi è sceso, non si è fatto niente perché non è un coglione (anche se io lo tratto come tale), e ha punzonato.
La prossima lanterna è diversa, ma è nella stessa direzione.

Tre o quattro volte sbagliamo sentiero, oppure prendiamo quello giusto senza riconoscerlo, e torniamo indietro.
Facciamo un brain storming con la bionda belga con cui ho fatto amicizia incrociandola mezza dozzina di volte dalle parti della dolina rocciosa (area dalla quale, in fondo, non mi sono mai allontanata) e poi ognuno per la sua strada, ancora più convinto della propria teoria.

Io non riesco a vedere, nella realtà, le differenze fra le dimensioni dei sentieri indicate in carta, quindi manco il bivio, ma Zzi, qualche metro davanti a me, è tanto buono e premuroso, e mi gira nella direzione giusta, come se io fossi uno di quei giocattoli caricati a molla che continuano a procedere anche se incontrano un ostacolo, che è sufficiente voltare affinché continuino a camminare.

Intanto, ho deciso: dopo la 4 mi ritiro. È l’una passata, tra un po’ si ritirerà anche Zzi, mangiamo un panino e torniamo a casa.
Imbroccato il sentiero giusto, affollatissimo di formiche, individuo benissimo dove sia la 4, arrivando addirittura a riconoscere il montarozzo di terra, che in carta è indicato con un puntino marrone e che storicamente è uno di quei dettagli che non riconosco mai quando ci passo davanti. La quattro sta là, illuminata da una lama di sole come la Spada nella Roccia, in fondo a una stretta dolina accidentata e pietrosa.
Sai che c’è? C’è che per trovarla, l’ho trovata, per ritirarmi, mi ritiro, e non è che mi spaccherò i denti per punzonarla ora. Fossi in gara, potrei eseguire il mio famoso buttwalking e punzonare lo stesso, ma, data le circostanze, non mi sembra il caso di rompere le braghe. Faccio una foto per i Piccoli Lettori di Zzi e  me ne torno lemme lemme alla macchina.

Certo che ce ne sono di formiche su questo sentiero, dev’esserci un formicaio… chissà se lo vedo… mmm… no, troppe foglie, probabilmente le montagnette di terra restano coperte. Bah, spero di non calpest… occristo!
Per forza non lo vedevo: cercavo una cucchiaiata di terra smossa sul sentiero, invece è un rilievo cartografabile.
Va bene che sono una fighetta cittadina che ha visto la prima mucca al pascolo a ventisei anni e non ho una grande esperienza di vita in campagna o all’aria aperta (e sto benissimo senza averla), ma io un formicaio così grande lo avevo visto solo nei documentari.
Ho fatto un filmato per mostrarvelo, con l’intento di far vedere l’operoso brulicare di questi affascinanti insetti, che appena cominciano a salire su per le scarpe e gli stinchi, son subito meno affascinanti.

Termina così la mia esperienza in bosco alla prima Bubo Cup: una tragedia per la mia carriera orientistica, ma un promettente avvio di una entomologica, se eccettuiamo il fatto che l’unica cosa che detesto più dell’orienteering sono gli insetti, naturalmente.

Bubo Cup 2013 – Postojnska Jama

Al ritrovo, vedo che Zzi non è ancora arrivato.
Mi attacco alle barrette che ho confezionato da sola come se non mangiassi da sei giorni e pontifico sul fatto che il mio lungo sposo dovrebbe arrivare a minuti, poiché circa mezz’ora prima si stava ritirando. Cos’altro mai poteva stare facendo uno che si ferma dieci minuti a discutere per riposizionare la recalcitrante moglie?
I minuti passano e, placata la fame, comincio a rendermi conto che è passata un’ora da quando l’ho visto.
Metto al sicuro i restanti viveri e raggiungo il Celere Capellone, che si sta scambiando opinioni sulla carta con la Freccia Rossa. Gli orientisti parlano solo di orienteering, ma almeno non c’è il Previdente Presidente a magnificare la faggeta di Monte Livata. Alle 14:15 mi dichiaro ufficialmente preoccupata per mio marito.
Gli astanti apprezzano che abbia atteso tanto, ma l’ho fatto solo perché non c’è uno Speaker che parla la mia lingua e che tiene i tempi a mente cui tazzare l’anima per una previsione sull’orario di arrivo Zzi.

Indossati binocoli e berretto da esploratore coloniale, con un ramo, traccio in terra lo schema per ripartire fra i presenti le zone di ricerca.
Il Celere Capellone, in quanto celere, coprirà la parte di carta più distante, grossomodo quella corrispondente alle province di Belluno e Treviso; l’Altro Marko, appena arrivato, perlustrerà quella più vicina (diciamo Rovigo e Verona), mentre la Freccia Rossa si occuperà della restante fascia intermedia; io starò ferma dove sono, altrimenti poi bisogna andare a cercare me.
In quella, arriva Zzi, piuttosto stanco per essere uno che s’è ritirato.
“Amore, che bello rivederti! Come stai? Ti sei fatto male? Dove sei stato?”
“Puff, pant. A far la gara”
“Eh, tutto ‘sto tempo… quando ti sei ritirato?”
“Non mi sono ritirato, avevo ancora mezza gara quando ci siamo incontrati, cosa ti ha fatto pensare che mi volessi ritirare?”
Già, cosa?

 

 

1 Response » to “Bubo Cup stage 2: Larry VS carta “Postojnska Jama”, 20.07.2013 – Open B”

  1. […] Continua su Larryetsitalia.net Lo struggente audiopost della seconda parte – drammaticamente interpretato dal mio divano di dolore, con i punti in bocca e il ghiaccio sulla faccia – sarà disponibile per gli iscritti alla newsletter non appena sarò riuscita a convertirlo in formato mp3. Ora come ora, le mie preoccupazioni principali sono riuscire a prendere sonno e “quanto Toradol posso assumere in un giorno?”, ma confido di mandarvi l’e-mail in settimana. Chi non lo ha ancora fatto, può iscriversi gratuitamente mettendo nome e indirizzo e-mail qua sotto. Non me li vendo alle aziende e non mi servono per chiedervi soldi dopo un mese: mi servono per mandarvi newsletter e contenuti extra, altrimenti, come faccio? […]

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