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L’ultimo stage della Lipica Open 2014 si annunciava essere il più bello: carta meno insidiosa delle altre, terreno intelleggibile, prati e muretti distribuiti armoniosamente, abbondanza di gialli carichi, penuria di curve di livello.
Orienteering for larries, insomma.

Come se non bastasse, nella mia categoria siamo rimaste in tre: sono matematicamente sul podio, se solo parto e arrivo.
In conclusione: ci sono tutti i presupposti della tragedia.

Per essere certa di non portare a casa neanche una medaglietta di plexiglass, la notte prima dell’ultima gara shakero Zzi fra le lenzuola, non come a una moglie si confà di shakerare il marito, bensì tremando nel letto come una foglia, preda di febbre e brividi, che mi piacerebbe imputare alla Serpe in Seno tifoidea, ma che credo siano dipesi dall’eccessiva esposizione al sole e all’aria aperta dei giorni precedenti.

Il tempo era splendido e la compagnia – come raccontato doviziosamente altrove – squisita, ma ho ugualmente trovato modo di mandarmi storta la giornata.

 

LA GARA, LARRY, LA GARA

Se c’è un posto al mondo da dove cominciare a fare orienteering, è Duttogliano.
Kazlje e Tomaj, infatti, ossia i posti che danno il nome alla carta dell’ultima gara di Lipica Open 2014, sono due piccoli paesi dalle parti di Dutovlje, su quella bellissima parte di Carso verde e morbidamente ondulata, priva di strapiombi, relativamente poco sassosa, punteggiata di vigneti, boschi e prati.

Le carte sono precise, il terreno è talmente amichevole che perfino io ne vengo fuori senza grosse sofferenze e consente di tracciare percorsi ideali.
La vegetazione è pulita, la natura non eccessivamente maligna e l’ambiente complessivamente gradevole alla vista.
Se dovessi ingannare qualcuno e fargli credere che l’orienteering sia un’attività divertente, lo porterei a provare qui.

Nonostante questo, ho fatto le mie belle cazzate.

Il mio percorso si sviluppava sulla parte di carta a est della linea elettrica, quella più corribile.

Il fondo è talmente facile, specie se raffrontato a quello dei giorni precedenti, che ci metto troppo poco tempo a spostarmi, e siccome non ho il minimo senso delle distanze vado lunghissima già alla uno.
Naturalmente, per farlo ho anche dovuto stare molto attenta a non notare gli evidenti dettagli del terreno e andare bella storta, ma ci sono ugualmente riuscita.
Soccorsa dai particolari idrologici, non ho potuto fare a meno di ritrovarmi e procedere per le lanterne successive.

I percorsi scelti per andare alla due e alla tre sono leggermente ondivaghi, ma denotano l’acquisizione dell’inedito concetto di “linea d’arresto”.
Certo, denotano anche che le linee d’arresto sono state scelte male, ma almeno sono state contemplate!

Sono abbastanza fiera anche di come sono andata alla quattro, molto meno di come sono andata alla cinque, dato che si passava meglio e prima dall’altra parte, e che l’ho trovata solo perché c’era un sacco di gente che andava e veniva dal punto, in quanto avevo deciso che stava sulla sella fra le due doline e ho iniziato a cercarla molto prima.

Siccome io sono una veloce e resistente, per la sei faccio una scelta che valorizza le mie doti atletiche, e mi spompo sull’assolato sentiero.
L’idea non è anche malaccio, peccato che per prendere tale sentiero sia uscita dal prato esattamente da dove ero entrata, anziché iniziare a tagliare un po’ di strada facendo una diagonale. È che sono forte e me lo posso permettere.

Alla sette ci vado così bene che neanche ne voglio parlare, così non sono costretta a rivelare che ho fatto questa scelta solo perché ho visto rem andare nel prato, mi sono chiesta dove andasse e mi sono risposta “cazzi suoi, però va bene anche per te”.

Anche la otto è un momento di alto orienteering: mi appoggio a tutti i muri che trovo, facendo più angoli retti che a Venezia, quando sarebbe stato facilissimo stare sulla linea rossa tenendo approssimativamente la direzione e contare i muretti, che erano solo tre; il terzo, infatti, che delimitava un sentiero enorme, era una linea d’arresto stile Checkpoint Charlie, ma che io mi sono guardata bene dal puntare subito.

Dopo il Checkpoint Charlie vado abbastanza normalmente fino al punto, così come al successivo, in prossimità del quale c’è il ristoro; ma io non bevo, per non dimenticare di punzonare.
Davanti a me c’è Freccia Rossa, che beve e non punzona, ma io non me ne accorgo e non me lo perdonerò mai: la causa della sua prima PM in 300 gare sono io.

La dieci è in una buca, sulla quale capisco di arrivare storta grazie a tutti gli atleti che punzonano la lanterna sul cocuzzolo più a destra.
Quando anche io mi accingo a punzonare la lanterna sul cocuzzolo, mi accorgo dal codice (dal codice – cazzo! – dal codice e non dal fatto che sono su un cocuzzolo anziché in una buca) che non è la mia, mi pongo qualche domanda esistenziale e cerco di tornare sulla rotta in cui ero, che – per inciso – non sarebbe neanche stata tanto storta.

Culo dei culi: vedo una ragazza che emerge dalla terra. O è uno zombie, o là c’è la mia buca con la lanterna.

Gli ultimi punti vengono via abbastanza bene, sono stanca e sudata marcia (però ho sfebbrato!), fa un caldo becco, tiro a stare il più possibile all’ombra, nei bianchi e nei verdini, e trovo ugualmente il modo di far rivoltare l’inventore dell’orienteering nella tomba con uno slalom gratuito fra la dodici e la tredici.

Alla fine arrivo, e lo faccio addirittura entro il tempo massimo.
Sapendo di passare davanti a tutta la truppa, tiro pure lo sprintone alla Geometra (non più) Giallo nel corridoio finale, raggiungendo la siderale velocità di 3 km/h. Anziché la foto, mi hanno fatto il ritratto ad olio.

Mentre percorrevo gli ultimi metri in discesa a una velocità che proprio non sentivo mia, ricordo distintamente di avere pensato “adesso mi imbelino in terra, svengo, mi portano all’ospedale e addio podio”.

Invece ho punzonato il finish e tutte le lanterne precedenti (miracolo) prima dello scadere del tempo, così mi sono aggiudicata un vasetto di miele e la chicchissima medaglietta di plexiglass, che attesta che almeno una volta nella vita ho esercitato tenacia.
… Ché son capaci tutti ad andare sul podio quando ci sono tremila altri atleti a gareggiare: basta solo fare prima. L’impresa è essere uno degli ultimi tre rimasti in piedi.

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