Lipica-Open-2014-Marezige-01

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo lunedì 10 marzo è forse il giorno più strano della mia vita; perfino più strano di quando mi sono sposata; perfino più strano di quando ho preso mi hanno dato la patente [la fiaba sonora, come sempre, è su Larrycette.com].

Il terzo giorno di Lipica Open è più strano di quando Bruce Springsteen mi ha baciata, perché oggi io vado a fare una gara di orienteering senza Zzi. Non solo non mi ci deve spingere come una rotoballa di fieno, come di solito è costretto a fare quando mi fingo morta per non scendere dal letto la domenica mattina, ma addirittura lui non viene.
Sul sedile posteriore della CPmobile, io sono vestita da orientista e lui è vestito da impiegato, perché scenderà dopo un paio di chilometri davanti al suo ufficio, mentre noi (io CP e rem) proseguiremo per Marezige. E siamo un ben singolare quadretto.

Lungo la strada si unisce a noi il Celere Capellone e sul posto ci raggiungono il Grintoso Grafico e la Veloce Violinista. Il G.U.D. è ricostituito. Non appena sua moglie ce lo restituisce, lo Speaker completa la formazione.

Tira un vento della Madonna e fa un freddo nero. Io sono vestita da triestina in gita perché ho visto che c’era il sole e nei giorni precedenti mi ero arrostita, quindi mi ritrovo in mezze maniche con dieci gradi.
CP mi offre a più riprese uno (o più) dei suoi molteplici strati, che io stoicamente rifiuto. Sia messo a verbale, per quando si darà allo Speaker la colpa della mia malattia.

La mia inettitutine allo sport in generale e all’orienteering in particolare non conosce più confini.

Verso ovest, è arrivata quasi in Svizzera, tanto che Copia Carbone e Mrs. Marshall, appena mi vedono, vengono a sincerarsi delle mie condizioni post-Vilenica e a coprirmi di rassicurazioni.
Copia Carbone è un ragazzo gentile che ha lo stesso nome di battesimo, la stessa età, lo stesso titolo di studio e lo stesso impiego dello Speaker.
Mrs. Marshall è la sua socievole moglie, la ragazza con un amplificatore al posto delle corde vocali. La coppia mi ha incrociata pochissime volte (sebbene sempre in situazioni estreme come l’assurdo fango di Palmanova alla vigilia dell’ultimo MOV e l’ultima – nel senso di “più recente”! – Hungary Cup), probabilmente ignora i miei blog, eppure pochi incontri sono bastati affinché nelle menti dei due si dipingesse un quadro preciso delle mie capacità atletiche. “Non ti preoccupare” – mi urla Mrs. Marshall parlando a otto centimetri dal mio naso – “prima o poi il bosco ti sputa fuori“. Dev’essere un incoraggiamento.

Verso est, ha valicato il Rio Ospo, il confine naturale con la penisola istriana, oltre il quale stanno le terre muggesane (che ovviamente i triestini guardano con superiorità, come qualsiasi cosa disti più di cinque chilometri dal loro condominio, rione accanto incluso). Il Celebre Cartografo di via Colarich, infatti, è generoso di indicazioni e suggerimenti mentre aspettiamo il nostro turno di partenza.
Metà degli insegnamenti che cerca di trasmettermi si perdono come lacrime nella pioggia, perché non capisco cosa significhino, l’altra metà è chiara, ma è altrettanto chiaro che non ho i mezzi tecnici e fisici per metterli in atto. Sono comunque molto colpita dalla sua premura, anche se è l’ennesima dimostrazione del fatto che nessuno che mi conosca abbia la minima fiducia nelle mie capacità.
La cosa non mi offende, perché non ne ho neppure io.

 

La GARA, LARRY! LA GARA!

 

 

Trascorsa la mezzora che mi separava dal mio presunto orario di partenza dal mio reale orario di partenza (l’idiota qua ha letto il pettorale al contrario e fatto andare su tutti troppo presto), prendo la carta, mi remeno a cercare il triangolo e procedo verso la svedese.

Fin qua, tutto come sempre. Alla svedese mi pianto perché la carta non mi batte un cazzo.
Oddio, non che io sia ‘sto fenomeno dell’orienteering per cui, se non mi batte la carta, c’è qualcosa che non va, anche perché gli altri stanno regolarmente giocando, ma qua proprio non mi torna niente, e non oso fare un passo finché la carta non assume l’aspetto del posto, altrimenti, come minimo, finisco in una trappola dei Viet-cong.
La situazione si mostra da subito talmente grave che non me ne frega niente di essere derisa dai partituri stando impalata sotto i loro occhi.

Anche il Grintoso Grafico non sembra particolarmente a suo agio con questa carta. Io non capisco come sono disposti i sentieri, né, soprattutto, dove cazzo sia il sentiero che, stando alla carta, dovrei avere sotto i piedi.

So che dei sentieri non ci si deve fidare, specie di quelli secondari, che l’orienteering si fa con la bussola e le forme del terreno, e tutte le altre informazioni sono ridondanti come la mia prosa. Tuttavia… tuttavia, cazzo, il sentiero della partenza di una carta revisionata la settimana precedente la gara mi aspetto di identificarlo, anche se sono Larry.

Il problema è proprio che sono Larry, infatti, quando, per passare un po’ il tempo, recito la parte dell’orientista, mi accorgo che devo cercarmi in mezzo al triangolo, non in un angoletto qualsiasi.
Anche se ho capito dove sono, l’aspetto generale della carta invita alla prudenza più estrema, e torno indietro a prendere il sentiero.

Il terreno è del genere che mi paralizza.
Per me, muoversi su queste pendenze è impossibile, mi spavento da morire, sto ore a concentrarmi e a dirmi che “dai, su, non è così ripido, non è così alto, puoi mettere un piede giù… dai, prova a staccarne uno da terra… ok, fa niente, prova con l’altro. No, da capo, riprova con il primo, ma abbassa il baricentro”.

Se a ciò aggiungiamo che sono anche andata parecchio storta perché non c’era neanche una dolina da puntare per spezzare le tratte e aggiustarsi durante la navigazione, stentiamo a figurarci come sia qua a raccontarlo.

E così, per tutte le tratte posso dire che ho cercato di seguire la curva di livello, ma non sono capace, non mi rendo conto se salgo o se scendo, né di quanto.
Poi, sul più bello, c’era da attraversare qualcosa che non si riusciva ad attraversare dal punto in cui ero, ma siccome non so leggere la carta, non me ne sono accorta per tempo, così ho passato qualche ora a fare piani strategici per superare l’ostacolo, piani che spesso prevedevano l’ausilio di una ruspa o, almeno, di una sega e due baldi boscaioli per tirar giù qualche albero.

Fra la tre e la quattro c’è un canale e ci ho camminato dentro, non compiacetevi della mia precisione.

Fra la quattro e la cinque decido di ritirarmi, tanto sono fuori tempo massimo.
Vado giusto fino alla cinque perché mi pare di farcela e da là mi ritiro. Amen, non c’è niente di male.

Bon dai, fin qua è andata bene.
Faccio ancora solo la sei.
E alla sei a momenti neanche arrivo, perché prendo un tratto di prato molto battuto per un sentiero e mi ritrovo su un precipizio che non riconosco in carta.
Dopo alcune ore a osservare il luogo e a fantasticare su quali legni siano più adatti per costruire la capanna che diventerà casa mia, noto un dettaglio di roccia nel canalone, grazie al quale mi ricolloco, e mi rinsaldo nel mio proposito di ritirarmi, ora che so dove sono.

Mi ritiro!
Vado!

Ma dove vado?
Guarda quanto sono lontana. La cosa più sicura per ritirarmi è procedere di lanterna in lanterna, almeno, sebbene il percorso sia tortuoso, avrò più spesso conferma della mia posizione. Se cerco di andare direttamente al finish, mi perdo sul serio e non avrò più un riferimento che sia uno.

Ah, beh, praticamente l’unica lanterna rimasta è la sette, da lì alla fine c’è comunque una tratta delle dimensioni di Rocco Siffredi.
Che culo, Larry!

Quando, punzonata la sette e decisa a saltare la otto, vedo la nona e ultima lanterna, controllo comunque l’orologio. Sono fuori tempo massimo di pochi minuti, che disdetta. Fossi stata più precisa, o più agile, o forse solo più decisa a procedere, sarei ancora classificata.
Eh, va beh, vuol dire che non me lo merito, pace.

Aspetta, aspetta. Quando ho fatto partire il cronometro? Cinque minuti prima dello start? Sette? Vuol dire che sono ancora dentro di tre minuti? Cinque?

Merda. È la notizia migliore e al tempo stesso peggiore che potessi darmi in questo momento.
La otto è su un sentiero in discesa e cosparso di mattoni (per diminuire l’aderenza, suppongo): non posso farlo a rotta di collo all’andata, ma posso morire per farlo di corsa al ritorno.

Lo “sprint” tra la nove (cento) e il finish si misura con la meridiana, ma a me sembra di stare per fare il salto nell’iperspazio. Lo sforzo è quello.
Quando sbuco su dal dosso, all’arrivo non c’è più nessuno, è un miracolo che mi abbiano lasciato le centraline.
Solo due piccole vedette lombarde mi avvistano e mi vengono incontro.

Credo di falciarle, e mi sento parecchio, ma parecchio, ridicola ad avere sputato sangue per arrivare, con ogni probabilità, fuori tempo massimo.
Una delle vocine nella mia testa non ha cuore di scaricare.
Un’altra la prende a schiaffi e le dice che questi ragionamenti da atleti, in questo cervello, non si fanno, e che se siamo fuori tempo massimo e siamo squalificate, tanto meglio: siamo automaticamente dispensate dalle due gare successive.

Siamo 59″ entro il tempo massimo di gara, domani si gioca ancora e forse sono disperata per questo.
Ma forse, se mi ritiravo o andavo fuori tempo, lo ero di più.
Forse!

 

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