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La cena della sera precedente mi ha certamente fornito le energie sufficienti per andare a nuoto sulla luna, inspiegabilmente non mi sento particolarmente carica nell’andare in partenza.
Meno male che il Principe Consorte mi fa dono di un prezioso talismano, un santino che mi proteggerà durante la perigliosa traversata del bosco.

Liburnija-Orienteering-Meeting-2014-Krk-2-Open-Long

 

La traversata è perigliosa veramente.
Andare alla uno non è un grosso problema. Sono un po’ impacciata sul muretto e fra le pietre, ma non sono i passaggi più insidiosi dove sia mai stata. Certo, il fatto di non essersi fatti una male una volta non significa che si riuscirà sempre a uscirne indenni – anzi, ora che ci penso, di solito i protagonisti delle tragedie sono gli insospettabili “esperti” – ma lì per lì mi do fiducia e vado.

La due è già un po’ più difficile per le mie ridotte capacità motorie, infatti la raggiungo nel tempo in cui la gente normale porta a termine una sprint, muovendomi sui muretti con estrema circospezione. Nel frattempo, sui medesimi muri, i ragazzetti dell’accademia di polizia corrono indemoniati come Pacman che ha mangiato la pillola. Tutta la mia preoccupazione consiste nel capire a che distanza sono, a che velocità stanno arrivando e dove mi posso arenare per farli passare senza essere travolta dalla valanga che il loro passaggio certamente provocherà.
Il dramma si consuma alla terza lanterna.

Noto ora, mentre scrivo il post, che la soluzione corretta era un’altra. Probabilmente, se l’avessi imboccata, avrei raggiunto la lanterna più facilmente e mi sarei spaventata molto meno, per me e per Zzi. Invece non l’ho vista, ho fatto una scelta che mi ha portata in una zona troppo impervia per me e sono andata letteralmente in merda.

Ci tengo a precisare che anche durante la gara mi sono resa conto che, una volta imboccati i muretti dove li ho imboccati io, la via più diretta per la lanterna consisteva nel prendere – almeno un paio di volte – i rami sinistri dei bivi, infatti il mio piano originale era quello; al momento di intraprendere la via più breve, però, essa risultava essere senza dubbio la più infida e rischiosa, così optavo per la strada più lunga, ma apparentemente meno mortale.

Raggiunta in qualche modo la lanterna tre, il problema principale, nell’andare alla quarta, non è decidere la strada o trovarla: è uscire dalla tre.
“Uscire bene dal punto è sempre una questione importante” – diranno subito i miei piccoli, petulanti, lettori orientisti.

Non mi sto riferendo al dirigersi subito nella direzione corretta avendo già in mente una strategia di attacco del punto successivo, senza perdere tempo a riorientare la carta e senza distrarsi, partendo per una direzione accazzo. Intendo proprio l’uscire fisicamente dalla zona in cui la lanterna è collocata, nel caso specifico il venir fuori dalla trappola per topi in cui non so neanche io bene come mi sono cacciata.

Dalla traccia forse non si capisce bene; trascorro 30 o 40 minuti nell’appezzamento adiacente a quello della lanterna cercando di capire come uscire. In questi quasi tre quarti d’ora non passa un’anima a punzonare, o io non me ne avvedo, quindi non posso neppure trarre ispirazione.
In verità, quando sono arrivata, ho visto la Fantastica Farmacista che usciva dal punto. Siccome il percorso è il medesimo, stava certamente andando dove devo andare io, ma lo stava facendo per quella porzione di carta dalla quale io stavo provenendo e che non avevo nessuna intenzione di calcare di nuovo.

Cerco, dunque, di andare via dall’angolo nord. L’angolo nord è chiuso da un muro a secco di circa due metri. Significa che, se salgo sulla base di tale muro, guadagno quel mezzo metro che mi consente di vedere dall’altra parte; ma non di oltrepassarlo. Chiunque altro si sarebbe issato sulle braccia e buttato su in qualche modo (il muro era largo e neppure io vedevo il pericolo di cadere dall’altra parte), ma io sono un grumo di polenta e non ce la faccio. Inoltre, il muro è instabile e spuntano sassi puntuti da tutte le parti, ci si fa pure un certo male nell’aggrapparsi (un po’ ci ho provato).

Torno un po’ verso il muro dal quale sono entrata. Guardo come è rappresentata in carta la parte che mi aspetta e vedo che è ancor più minacciosa di quella che ho già percorso. Se ho avuto tante difficoltà nel primo tratto, il secondo non può che essermi letale, e di nuovo abbandono l’idea di passare di là.

Non mi resta che infognarmi nel verdino dell’appezzamento a est, arrivare al giallo (che è un giallo di abbellimento della carta, non pensiate che sia un prato!), puntare a nord e salire là.
Ci riesco solo perché è l’ultima alternativa che mi è rimasta e, se non prendo questa via, non mi resta che passare i miei giorni in questo stazzo, ma l’idea è pessima. Ad ogni modo, qui il muro è più basso di quel tanto che basta a farmi salire sulla sua sommità: la polenta intorno ai miei femori e ai miei omeri si raggruma in un moto di salvezza e io mi ritrovo miracolosamente in cima, senza neanche troppe botte.

In cima, sì, ci sono, ma sono dalla parte sbagliata di una rete arrugginita, che da sotto non avevo visto, che in carta – ora che guardo meglio – forse è segnata, ma forse è il trattino del muro, che non mi fa passare.
Mi arriva alla pancia, non c’è verso che la passi. Il resto dei partecipanti sta correndo su un muretto parallelo, che Dio solo sa come ha raggiunto, e sembra non avere un problema al mondo.

La rete è mezza rotta, si riesce anche a piegarla e renderla più bassa, ma lo stesso non è sicuro scavalcarla. Se, quando ho una gamba dall’altra parte, quella torna su, o io perdo l’appoggio e mi abbasso bruscamente, mi conficco una punta arrugginita in una coscia. Se ho culo, prendo in pieno l’arteria femorale e muoio dissanguata prima di raggiungere il centro gara, altrimenti mi procuro una ferita meno grave e muoio fra gli atroci tormenti del tetano.

Mi accorgo che me lo sto dicendo sul serio perché non penso – come faccio di solito quando mi trovo in situazioni del menga durante le gare – che è tutta colpa di Zzi e che quando arrivo mi sente, e che questa è l’ultima volta che faccio queste cazzate, che con l’orienteering ho chiuso e si torna ai tempi in cui aspettavo il mio amore in macchina, nelle mie belle scarpette di vernice firmate e con gli orecchini a lampadario, e non scendevo neanche per mangiare il minestrone, e che stavolta appendo la si-card al chiodo e vendo la tuta a CP, così non c’è pericolo che possa ricominciare, che io sono fatta per la cirulla e per girare buone da dieci, non per girare cartine e boschi… che cazzo!
Non penso nulla di tutto ciò, non penso, cioè, a un futuro in cui ricordando questa situazione mi sembrerà divertente.
Penso a quanto si sentirà in colpa Zzi quando sarò morta.

Sono recentemente giunta alla conclusione di avere due modalità di sindrome premestruale, che più o meno si alternano di mese in mese e che, con l’età, diventano sempre più violente e incontrollabili: quella irascibile e quella patetica. Ai primi di aprile non potrete rivolgermi parola che mi volterò come un cobra e vi strapperò la pelle di dosso a parole; a marzo, evidentemente, avevo uno spiccato senso del melodramma.

Approfitto della presenza di un tedesco che non ammette di non sapere dove si trova per scavalcare. Non mi aiuta, ma almeno sta lì fermo due minuti e se mi ammazzo mi vede e può riferire le mie ultime parole (sperando che non siano imprecazioni).

Non riesco a godermi fino in fondo la ritrovata libertà, perché la strada è tutt’altro che rilassante, ma almeno vedo il mondo, che qui è particolarmente bello. La prospettiva di morire con negli occhi il cielo e il mare anziché un muro, però, è poetica, ma solo leggermente migliore della precedente, e non riesco a gioirne.

Non so cos’abbiano di diverso i muri di questa seconda tappa rispetto a quelli della precedente, fatto sta che il primo giorno ero impacciata, titubante, ma un po’ mi divertivo a stare in cima alle pareti e vedere mare da tutte le parti, mentre adesso l’angoscia supera di gran lunga la mia capacità di apprezzare il pur pregevole panorama.

Cammina, cammina, arrivo anche alla quattro.
Nonostante la discesa dai muretti sia traumatica, starci in cima è ancora peggio, così cerco di fare quanta più strada possibile sul terreno; orientisticamente è una cazzata, ma il piacere di sentire le gambe stabili non ha prezzo.
Durante il tragitto incontro due volte il Proficuo Professore, che ha meno consapevolezza di me sulla nostra posizione in carta (per forza, lui si muove, io sto cinque minuti su ogni metro), ma ha molta pazienza nell’indicarmi dove mettere i piedi e nel dissuadermi dallo scavare un tunnel per oltrepassare l’ennesimo muro che mi arriva al garrese e che io non vedo in che altro modo possa essere superato.
Di fatto, è grazie a lui che punzono la quarta lanterna, fosse per me sarei ancora là, a demolire torrette a mani nude.

La cinque non è poi così distante, ho anche un piano per raggiungerla, anche se i muretti continuano a essere così cedevoli che sembra esserci il terremoto.
È a questo punto che mi accorgo che ho il respiro affannato, anche se procedo con estreme lentezza e cautela. Noto, allora, che i muretti sono fermi. Saranno cinque minuti che non sento rotolare una pietra, la sensazione di totale instabilità viene dalle mie gambe: tremano.

Il vantaggio di avere la testa piena di vocine è che ce n’è sempre almeno una che sa cosa fare. Magari non è sempre facile capire a quale bisogna dare retta, ma con un po’ di allenamento all’ascolto si riesce a individuare quella assennata; di solito, è quella con la voce da maschio. E quella assennata ha detto “ritirati, mona, no xè per ti”.
Una ha risposto “figuriamoci, ce la faccio”, ed era palesemente fuori di senno, oppure era arrivata adesso e non sapeva cos’era successo fino a quel momento. Una ha frignato “sì, dai, portami a casa”, ma ha preso subito quattro sberle e ottenuto solo di rinsaldare le altre nel proposito di proseguire. Un’altra ha replicato che se eravamo arrivate fin qua, potevamo quasi certamente proseguire. Un paio di altre sgallettate, inspiegabilmente euforiche, hanno iniziato ad agitarsi al grido di “dai, dai, proviamo, il peggio è passato per forza”.

La vocina assennata ha guardato la carta, non ha ottenuto garanzie da essa che il peggio fosse effettivamente passato (anche se le probabilità parevano alte), e ha fatto garbatamente notare che:
1. probabilmente siamo arrivate sane e salve fin lì per puro culo e non per effettiva capacità di soddisfare simili richieste atletiche;
2. siamo stanche e cagate sotto, il che non è la migliore condizione per affrontare una situazione che presumibilmente richiederà agilità e concentrazione;
3. è un impegno al di sopra delle nostre possibilità;
4. probabilmente non moriremo, ma potremmo effettivamente farci un po’ male, e andarsele a cercare, a una settimana dalla Lipica Open, è proprio da scemi;
5. saranno tutti preoccupati per noi;
6. le pecore con la diarrea cagano solo nei punti in cui è più facile scendere dai muri, quindi, anche se sulla carta il percorso è meno impervio, sarà comunque reso scivoloso dagli escrementi liquidi di ovino (le pecore senza problemi intestinali lasciano i loro escrementi altrove, in genere dove non è necessario transitare).

Per verificare la penultima asserzione (per sostenere l’ultima ho già elementi sufficienti), guardo l’orologio, che mi dice che sono in gara da più di due ore e spira sotto i miei occhi. Muore. Si spegne, reso esausto dal mio lungo peregrinare, nel momento esatto in cui lo interrogo.
Tra i miei tanti difetti non c’è la superstizione, ma ho visto troppi film di Nora Ephron per non prenderlo come un segno e imboccare serena il rassicurante sentiero nel giallo che conduce alla statale senza un senso di colpa che sia uno.
Ok, per un fugace istante, quando ho già il rassicurante asfalto sotto le suole, ho una mezza idea di ributtarmi dentro all’altezza della cinque e farle tutte a pettine, passando il più possibile per la statale, ma mi sembra un’idea del cazzo perfino per me e tiro dritta.
Del resto, ho cinque giorni di Lipica che mi attendono per darmi modo di espiare la mia pusillanimità.
Dati gli split di questa gara, se ne completerò almeno una su cinque entro il tempo massimo, mi considererò vincitrice morale.

 

Non ci sono le prove, ma dopo la notizia della mancanza di Zzi all’appello dei tornati, fra il parcheggio dove sono stata scaricata e l’arrivo, infrango il muro del suono, nonostante fosse discesa.
Poi ho infranto qualcos’altro in pezzi piccoli piccoli, ma è un’altra faccenda…

E finalmente arriviamo a parlare delle gare di Veglia (Krk). Se non volete leggere questo post, lo potete scaricare da i-Tunes o ascoltare qui.

Per questo ori-appuntamento ero stranamente invexendata, e confesserò che, se avessimo avuto la possibilità, sarei volentieri andata anche alla Kvarner Bay Challenge della settimana prima a Cherso (Cres): i posti erano belli, le compagnie piacevoli, le gite sono sempre divertenti e l’orienteering è un prezzo elevato, ma giusto, da pagare per tutto questo.
Il lato positivo della trasferta è narrato – come sempre – su Larrycette (con tanto di audio, registrato con l’ultimo filo di voce che la Lipica Open mi aveva lasciato), ora ci concentriamo sulle cazzate fatte tra il clear e il finish.

Parto unica e sola al minuto zero del primo giorno della prima edizione della manifestazione: significa che la inauguro. Per fortuna non me ne è fregato mai un belino dell’orienteering, dello sport, e delle prestazioni in generale, altrimenti credo che stavolta un po’ di ansia  mi sarebbe venuta, nel ritrovarmi da sola al cancello di partenza del mio minuto, con un sacco di gente figa (si capisce da come sono vestiti che sono atleti fighi, anche senza lo Speaker a raccontare vita, morte e miracoli di tutti quelli che incrociamo) che si concentra e stiracchia ai cancelli posteriori.

Piglio su la mia carta, ho un momento di lucidità nel verificare che sia proprio la mia, passeggio cauta fino alla svedese e nel mentre mi metto a cercare il triangolo; come nella migliore tradizione non lo trovo, vedo il punto 6 e risalgo da esso a ritroso fino alla partenza.
Nel frattempo è passato un minuto e alla svedese arriva anche l’invasato partito dopo di me, che prende a destra; io ci penso su ancora un pochino e mi convinco che devo proprio andare a sinistra.

Toh, una salita. Che culo.
Seguo il sentiero fino a quello che mi pare il bivio e mi butto dentro, e lì capisco che i muri non vanno scavalcati, almeno, non solo: bisogna camminarci sopra.
Ci metto un po’, ad arrivarci, a dire il vero, e per un po’ mi ostino a stare di sotto; poi, però, i sentieri segnati all’interno dei confini dei muri mi sembrano un segnale inequivocabile del fatto che ci si aspetti che li si percorra, così mi faccio coraggio.
Da quassù è tutta un’altra cosa, si ha una visuale fantastica del terreno ed è abbastanza facile capire in che punto della carta ci si trovi.

Da quando ho scoperto che non soffro di vertigini, poi, mi godo molto di più le situazioni come queste.
Quando finiscono le pareti intorno al sentiero e mi ritrovo a camminare sul ciglio del muro, a tre metri di altezza su una distesa di rocce acuminate, me la godo molto meno e mi sovviene che non ho mai scoperto di non soffrire di vertigini, ma decido di affrontare un problema alla volta:

– restare in piedi
– decidere una direzione
– percorrerla sui piedi e non sulla faccia
– trovare la lanterna

Punzono la uno solo perché, essendo partita per prima, sto in zona punto abbastanza tempo da sentire arrivare altri concorrenti e, a furia di vederli andare tutti in una direzione, la tracotante certezza che abbiano un altro punto fa posto al più umile sospetto che possano, invece, avere lo stesso che ho io, così vado a dare un’occhiatina al di là del recinto di muri nel quale mi sono infognata e vedo che c’è proprio il paesaggio che dovrebbe essere intorno al mio punto.
Considero per un momento l’eventualità di aver sbagliato appezzamento, vado a vedere se per caso la lanterna è nella zona più somigliante al centro del mio cerchietto e – indovina? – trovo la lanterna al centro del cerchietto.

Il mio andamento verso la lanterna due è lento, molto lento, ma costante. Dalla traccia GPS sembra che io sia scesa ripetutamente dai muretti, in realtà sono sempre stata sopra, credo sia un effetto del cielo coperto, che non permetteva ai satelliti un rilevamento preciso, e del mio agitare convulsamente le braccia per restare in equilibrio. Poi sbaglio appezzamento e cerco per ore la pozza dove non è, finché non mi vengono in soccorso le orecchie, e mi affaccio al muretto per vedere da dove arriva questo fastidioso bip. Toh, la pozza. Toh, la lanterna che bippa perché la punzonano tutti.

Per andare alla terza lanterna c’è un sentiero a livello terra che mi commuove, infatti quando devo abbandonarlo sono molto restia e impiego una vita a costeggiare il muretto che conduce alla lanterna. A dire il vero, impiego una vita a costeggiarlo anche in senso contrario, per tornare sull’amato sentiero…

La strategia per la lanterna numero quattro è analoga, ma viene molto meglio perché l’ambiente che circonda la lanterna è molto meno ostile. Inoltre, per la prima volta in vita mia prendo in considerazione l’ipotesi di far caso anche a forme del terreno meno pronunciate del monte Nanos, così imbrocco la depressione dove è collocata la lanterna e praticamente me la conficco nella pancia.

Alla cinque ho un leggero brivido perché, arrivando, per un momento non la vedo, ma solo un istante dopo sono ringalluzzita e piena di fiducia nelle mie capacità di orientamento. Se non inciampo nella corda, ho un futuro nelle categorie inferiori alla W10.

La sesta lanterna è un’insospettabile agonia. Mi sfugge il sentiero che vi conduce direttamente, lo noto perché incrocio la Fantastica Farmacista (che mi ha raggiunta e superata, dandomi una manciata di quarti d’ora di distacco) che torna indietro per imboccarlo. “Poco male”, mi dico “Prendo quello dopo, che piega all’indietro; giunta dove sono, se tornassi indietro per la strada, come fa la mia amica, perderei lo stesso tempo”.
Questo sarebbe probabilmente stato vero se quello che in carta sembrava un affrontabile verde-2 non fosse stato, in realtà, una foresta vergine di ginepri, rovi, e liane acuminate.

A un certo punto – dato che non riesco a procedere né in avanti né indietro e inizio a valutare di ricorrere alla mia eccezionale dotazione di decibel per farmi soccorrere – mi distraggo perché noto, al suolo, dei cilindretti bianchi, cavi, che sembrano ossa, anche se non saprei di quale parte dello scheletro di quale animale.
Mi dico che sono sicuramente sassi e mi propongo di raccoglierne uno per mostrarlo a Zzi. Più li guardo e più mi sembrano ossa e ho un po’ di repulsione a toccarli, ma mi ripeto che sono solo sassi strani. Ne sposto uno con la punta del piede, che è più o meno l’unica parte del corpo che ancora riesco a muovere, e lo trovo sorprendentemente leggero.

È indubbiamente un osso, non so di chi, non so di cosa, non so perché ce ne siano così tanti lì, ma decido che non ci lascerò le mie (ossa), mi porto via diversi rametti fra i capelli e lascio sulle spine qualche brandello di tuta e di pelle, ma guadagno il sentierino parallelo che conduce alla lanterna. In realtà non conduce da nessuna parte, se non in un’altra giungla, ma almeno da qui la lanterna è visibile.
È piuttosto frustrante vedere la lanterna e non riuscire a raggiungerla, ma a me capita spesso e non mi lascio demoralizzare. Dopo uno studio accurato, stabilisco che la via migliore è quella dritta: tanto è verde-ventuno dappertutto, tanto fa starci dentro il meno possibile.
Io ancora non lo so, ma a questo punto ho sicuramente un bruco addosso.

Riguadagnato il sentiero, faccio un rapido inventario di dita orecchie e bulbi oculari; mi pare che ci sia tutto, e procedo verso la sette prendendo nota mentalmente di adottare l’acconciatura a chignon, quando mi saranno di nuovo cresciuti i capelli.

C’era senz’altro una strada più orientistica per raggiungere la sette, ma col cazzo che mi addentro nella vegetazione un passo più del necessario. Tornando sul sentiero cerco di dire il codice della lanterna a un ragazzino dell’accademia di polizia della Croazia, e mi accorgo che il mio croato viene fuori solo a lezione di sloveno: quando devo parlarlo, il mio cervello riesce a tirar fuori solo una pallida imitazione dello sloveno o, al massimo, un tedesco elementare.
Ad ogni modo, il giovanotto sa l’italiano, mi dice “59”, mi saluta con quel sorriso fatto a metà di compassione e a metà di scherno che, evidentemente, in Croazia, ti insegnano a militare, e raggiunge come un fulmine la compagna di corso, che aspetta sul sentiero lui e la propria si-card a lui affidata.

Il mio scatto al finish è, come al solito, bruciante, come peraltro si evince dalle foto che mi sono state scattate, tutte rimaste mosse.