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La cena della sera precedente mi ha certamente fornito le energie sufficienti per andare a nuoto sulla luna, inspiegabilmente non mi sento particolarmente carica nell’andare in partenza.
Meno male che il Principe Consorte mi fa dono di un prezioso talismano, un santino che mi proteggerà durante la perigliosa traversata del bosco.

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La traversata è perigliosa veramente.
Andare alla uno non è un grosso problema. Sono un po’ impacciata sul muretto e fra le pietre, ma non sono i passaggi più insidiosi dove sia mai stata. Certo, il fatto di non essersi fatti una male una volta non significa che si riuscirà sempre a uscirne indenni – anzi, ora che ci penso, di solito i protagonisti delle tragedie sono gli insospettabili “esperti” – ma lì per lì mi do fiducia e vado.

La due è già un po’ più difficile per le mie ridotte capacità motorie, infatti la raggiungo nel tempo in cui la gente normale porta a termine una sprint, muovendomi sui muretti con estrema circospezione. Nel frattempo, sui medesimi muri, i ragazzetti dell’accademia di polizia corrono indemoniati come Pacman che ha mangiato la pillola. Tutta la mia preoccupazione consiste nel capire a che distanza sono, a che velocità stanno arrivando e dove mi posso arenare per farli passare senza essere travolta dalla valanga che il loro passaggio certamente provocherà.
Il dramma si consuma alla terza lanterna.

Noto ora, mentre scrivo il post, che la soluzione corretta era un’altra. Probabilmente, se l’avessi imboccata, avrei raggiunto la lanterna più facilmente e mi sarei spaventata molto meno, per me e per Zzi. Invece non l’ho vista, ho fatto una scelta che mi ha portata in una zona troppo impervia per me e sono andata letteralmente in merda.

Ci tengo a precisare che anche durante la gara mi sono resa conto che, una volta imboccati i muretti dove li ho imboccati io, la via più diretta per la lanterna consisteva nel prendere – almeno un paio di volte – i rami sinistri dei bivi, infatti il mio piano originale era quello; al momento di intraprendere la via più breve, però, essa risultava essere senza dubbio la più infida e rischiosa, così optavo per la strada più lunga, ma apparentemente meno mortale.

Raggiunta in qualche modo la lanterna tre, il problema principale, nell’andare alla quarta, non è decidere la strada o trovarla: è uscire dalla tre.
“Uscire bene dal punto è sempre una questione importante” – diranno subito i miei piccoli, petulanti, lettori orientisti.

Non mi sto riferendo al dirigersi subito nella direzione corretta avendo già in mente una strategia di attacco del punto successivo, senza perdere tempo a riorientare la carta e senza distrarsi, partendo per una direzione accazzo. Intendo proprio l’uscire fisicamente dalla zona in cui la lanterna è collocata, nel caso specifico il venir fuori dalla trappola per topi in cui non so neanche io bene come mi sono cacciata.

Dalla traccia forse non si capisce bene; trascorro 30 o 40 minuti nell’appezzamento adiacente a quello della lanterna cercando di capire come uscire. In questi quasi tre quarti d’ora non passa un’anima a punzonare, o io non me ne avvedo, quindi non posso neppure trarre ispirazione.
In verità, quando sono arrivata, ho visto la Fantastica Farmacista che usciva dal punto. Siccome il percorso è il medesimo, stava certamente andando dove devo andare io, ma lo stava facendo per quella porzione di carta dalla quale io stavo provenendo e che non avevo nessuna intenzione di calcare di nuovo.

Cerco, dunque, di andare via dall’angolo nord. L’angolo nord è chiuso da un muro a secco di circa due metri. Significa che, se salgo sulla base di tale muro, guadagno quel mezzo metro che mi consente di vedere dall’altra parte; ma non di oltrepassarlo. Chiunque altro si sarebbe issato sulle braccia e buttato su in qualche modo (il muro era largo e neppure io vedevo il pericolo di cadere dall’altra parte), ma io sono un grumo di polenta e non ce la faccio. Inoltre, il muro è instabile e spuntano sassi puntuti da tutte le parti, ci si fa pure un certo male nell’aggrapparsi (un po’ ci ho provato).

Torno un po’ verso il muro dal quale sono entrata. Guardo come è rappresentata in carta la parte che mi aspetta e vedo che è ancor più minacciosa di quella che ho già percorso. Se ho avuto tante difficoltà nel primo tratto, il secondo non può che essermi letale, e di nuovo abbandono l’idea di passare di là.

Non mi resta che infognarmi nel verdino dell’appezzamento a est, arrivare al giallo (che è un giallo di abbellimento della carta, non pensiate che sia un prato!), puntare a nord e salire là.
Ci riesco solo perché è l’ultima alternativa che mi è rimasta e, se non prendo questa via, non mi resta che passare i miei giorni in questo stazzo, ma l’idea è pessima. Ad ogni modo, qui il muro è più basso di quel tanto che basta a farmi salire sulla sua sommità: la polenta intorno ai miei femori e ai miei omeri si raggruma in un moto di salvezza e io mi ritrovo miracolosamente in cima, senza neanche troppe botte.

In cima, sì, ci sono, ma sono dalla parte sbagliata di una rete arrugginita, che da sotto non avevo visto, che in carta – ora che guardo meglio – forse è segnata, ma forse è il trattino del muro, che non mi fa passare.
Mi arriva alla pancia, non c’è verso che la passi. Il resto dei partecipanti sta correndo su un muretto parallelo, che Dio solo sa come ha raggiunto, e sembra non avere un problema al mondo.

La rete è mezza rotta, si riesce anche a piegarla e renderla più bassa, ma lo stesso non è sicuro scavalcarla. Se, quando ho una gamba dall’altra parte, quella torna su, o io perdo l’appoggio e mi abbasso bruscamente, mi conficco una punta arrugginita in una coscia. Se ho culo, prendo in pieno l’arteria femorale e muoio dissanguata prima di raggiungere il centro gara, altrimenti mi procuro una ferita meno grave e muoio fra gli atroci tormenti del tetano.

Mi accorgo che me lo sto dicendo sul serio perché non penso – come faccio di solito quando mi trovo in situazioni del menga durante le gare – che è tutta colpa di Zzi e che quando arrivo mi sente, e che questa è l’ultima volta che faccio queste cazzate, che con l’orienteering ho chiuso e si torna ai tempi in cui aspettavo il mio amore in macchina, nelle mie belle scarpette di vernice firmate e con gli orecchini a lampadario, e non scendevo neanche per mangiare il minestrone, e che stavolta appendo la si-card al chiodo e vendo la tuta a CP, così non c’è pericolo che possa ricominciare, che io sono fatta per la cirulla e per girare buone da dieci, non per girare cartine e boschi… che cazzo!
Non penso nulla di tutto ciò, non penso, cioè, a un futuro in cui ricordando questa situazione mi sembrerà divertente.
Penso a quanto si sentirà in colpa Zzi quando sarò morta.

Sono recentemente giunta alla conclusione di avere due modalità di sindrome premestruale, che più o meno si alternano di mese in mese e che, con l’età, diventano sempre più violente e incontrollabili: quella irascibile e quella patetica. Ai primi di aprile non potrete rivolgermi parola che mi volterò come un cobra e vi strapperò la pelle di dosso a parole; a marzo, evidentemente, avevo uno spiccato senso del melodramma.

Approfitto della presenza di un tedesco che non ammette di non sapere dove si trova per scavalcare. Non mi aiuta, ma almeno sta lì fermo due minuti e se mi ammazzo mi vede e può riferire le mie ultime parole (sperando che non siano imprecazioni).

Non riesco a godermi fino in fondo la ritrovata libertà, perché la strada è tutt’altro che rilassante, ma almeno vedo il mondo, che qui è particolarmente bello. La prospettiva di morire con negli occhi il cielo e il mare anziché un muro, però, è poetica, ma solo leggermente migliore della precedente, e non riesco a gioirne.

Non so cos’abbiano di diverso i muri di questa seconda tappa rispetto a quelli della precedente, fatto sta che il primo giorno ero impacciata, titubante, ma un po’ mi divertivo a stare in cima alle pareti e vedere mare da tutte le parti, mentre adesso l’angoscia supera di gran lunga la mia capacità di apprezzare il pur pregevole panorama.

Cammina, cammina, arrivo anche alla quattro.
Nonostante la discesa dai muretti sia traumatica, starci in cima è ancora peggio, così cerco di fare quanta più strada possibile sul terreno; orientisticamente è una cazzata, ma il piacere di sentire le gambe stabili non ha prezzo.
Durante il tragitto incontro due volte il Proficuo Professore, che ha meno consapevolezza di me sulla nostra posizione in carta (per forza, lui si muove, io sto cinque minuti su ogni metro), ma ha molta pazienza nell’indicarmi dove mettere i piedi e nel dissuadermi dallo scavare un tunnel per oltrepassare l’ennesimo muro che mi arriva al garrese e che io non vedo in che altro modo possa essere superato.
Di fatto, è grazie a lui che punzono la quarta lanterna, fosse per me sarei ancora là, a demolire torrette a mani nude.

La cinque non è poi così distante, ho anche un piano per raggiungerla, anche se i muretti continuano a essere così cedevoli che sembra esserci il terremoto.
È a questo punto che mi accorgo che ho il respiro affannato, anche se procedo con estreme lentezza e cautela. Noto, allora, che i muretti sono fermi. Saranno cinque minuti che non sento rotolare una pietra, la sensazione di totale instabilità viene dalle mie gambe: tremano.

Il vantaggio di avere la testa piena di vocine è che ce n’è sempre almeno una che sa cosa fare. Magari non è sempre facile capire a quale bisogna dare retta, ma con un po’ di allenamento all’ascolto si riesce a individuare quella assennata; di solito, è quella con la voce da maschio. E quella assennata ha detto “ritirati, mona, no xè per ti”.
Una ha risposto “figuriamoci, ce la faccio”, ed era palesemente fuori di senno, oppure era arrivata adesso e non sapeva cos’era successo fino a quel momento. Una ha frignato “sì, dai, portami a casa”, ma ha preso subito quattro sberle e ottenuto solo di rinsaldare le altre nel proposito di proseguire. Un’altra ha replicato che se eravamo arrivate fin qua, potevamo quasi certamente proseguire. Un paio di altre sgallettate, inspiegabilmente euforiche, hanno iniziato ad agitarsi al grido di “dai, dai, proviamo, il peggio è passato per forza”.

La vocina assennata ha guardato la carta, non ha ottenuto garanzie da essa che il peggio fosse effettivamente passato (anche se le probabilità parevano alte), e ha fatto garbatamente notare che:
1. probabilmente siamo arrivate sane e salve fin lì per puro culo e non per effettiva capacità di soddisfare simili richieste atletiche;
2. siamo stanche e cagate sotto, il che non è la migliore condizione per affrontare una situazione che presumibilmente richiederà agilità e concentrazione;
3. è un impegno al di sopra delle nostre possibilità;
4. probabilmente non moriremo, ma potremmo effettivamente farci un po’ male, e andarsele a cercare, a una settimana dalla Lipica Open, è proprio da scemi;
5. saranno tutti preoccupati per noi;
6. le pecore con la diarrea cagano solo nei punti in cui è più facile scendere dai muri, quindi, anche se sulla carta il percorso è meno impervio, sarà comunque reso scivoloso dagli escrementi liquidi di ovino (le pecore senza problemi intestinali lasciano i loro escrementi altrove, in genere dove non è necessario transitare).

Per verificare la penultima asserzione (per sostenere l’ultima ho già elementi sufficienti), guardo l’orologio, che mi dice che sono in gara da più di due ore e spira sotto i miei occhi. Muore. Si spegne, reso esausto dal mio lungo peregrinare, nel momento esatto in cui lo interrogo.
Tra i miei tanti difetti non c’è la superstizione, ma ho visto troppi film di Nora Ephron per non prenderlo come un segno e imboccare serena il rassicurante sentiero nel giallo che conduce alla statale senza un senso di colpa che sia uno.
Ok, per un fugace istante, quando ho già il rassicurante asfalto sotto le suole, ho una mezza idea di ributtarmi dentro all’altezza della cinque e farle tutte a pettine, passando il più possibile per la statale, ma mi sembra un’idea del cazzo perfino per me e tiro dritta.
Del resto, ho cinque giorni di Lipica che mi attendono per darmi modo di espiare la mia pusillanimità.
Dati gli split di questa gara, se ne completerò almeno una su cinque entro il tempo massimo, mi considererò vincitrice morale.

 

Non ci sono le prove, ma dopo la notizia della mancanza di Zzi all’appello dei tornati, fra il parcheggio dove sono stata scaricata e l’arrivo, infrango il muro del suono, nonostante fosse discesa.
Poi ho infranto qualcos’altro in pezzi piccoli piccoli, ma è un’altra faccenda…

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