E finalmente arriviamo a parlare delle gare di Veglia (Krk). Se non volete leggere questo post, lo potete scaricare da i-Tunes o ascoltare qui.

Per questo ori-appuntamento ero stranamente invexendata, e confesserò che, se avessimo avuto la possibilità, sarei volentieri andata anche alla Kvarner Bay Challenge della settimana prima a Cherso (Cres): i posti erano belli, le compagnie piacevoli, le gite sono sempre divertenti e l’orienteering è un prezzo elevato, ma giusto, da pagare per tutto questo.
Il lato positivo della trasferta è narrato – come sempre – su Larrycette (con tanto di audio, registrato con l’ultimo filo di voce che la Lipica Open mi aveva lasciato), ora ci concentriamo sulle cazzate fatte tra il clear e il finish.

Parto unica e sola al minuto zero del primo giorno della prima edizione della manifestazione: significa che la inauguro. Per fortuna non me ne è fregato mai un belino dell’orienteering, dello sport, e delle prestazioni in generale, altrimenti credo che stavolta un po’ di ansia  mi sarebbe venuta, nel ritrovarmi da sola al cancello di partenza del mio minuto, con un sacco di gente figa (si capisce da come sono vestiti che sono atleti fighi, anche senza lo Speaker a raccontare vita, morte e miracoli di tutti quelli che incrociamo) che si concentra e stiracchia ai cancelli posteriori.

Piglio su la mia carta, ho un momento di lucidità nel verificare che sia proprio la mia, passeggio cauta fino alla svedese e nel mentre mi metto a cercare il triangolo; come nella migliore tradizione non lo trovo, vedo il punto 6 e risalgo da esso a ritroso fino alla partenza.
Nel frattempo è passato un minuto e alla svedese arriva anche l’invasato partito dopo di me, che prende a destra; io ci penso su ancora un pochino e mi convinco che devo proprio andare a sinistra.

Toh, una salita. Che culo.
Seguo il sentiero fino a quello che mi pare il bivio e mi butto dentro, e lì capisco che i muri non vanno scavalcati, almeno, non solo: bisogna camminarci sopra.
Ci metto un po’, ad arrivarci, a dire il vero, e per un po’ mi ostino a stare di sotto; poi, però, i sentieri segnati all’interno dei confini dei muri mi sembrano un segnale inequivocabile del fatto che ci si aspetti che li si percorra, così mi faccio coraggio.
Da quassù è tutta un’altra cosa, si ha una visuale fantastica del terreno ed è abbastanza facile capire in che punto della carta ci si trovi.

Da quando ho scoperto che non soffro di vertigini, poi, mi godo molto di più le situazioni come queste.
Quando finiscono le pareti intorno al sentiero e mi ritrovo a camminare sul ciglio del muro, a tre metri di altezza su una distesa di rocce acuminate, me la godo molto meno e mi sovviene che non ho mai scoperto di non soffrire di vertigini, ma decido di affrontare un problema alla volta:

– restare in piedi
– decidere una direzione
– percorrerla sui piedi e non sulla faccia
– trovare la lanterna

Punzono la uno solo perché, essendo partita per prima, sto in zona punto abbastanza tempo da sentire arrivare altri concorrenti e, a furia di vederli andare tutti in una direzione, la tracotante certezza che abbiano un altro punto fa posto al più umile sospetto che possano, invece, avere lo stesso che ho io, così vado a dare un’occhiatina al di là del recinto di muri nel quale mi sono infognata e vedo che c’è proprio il paesaggio che dovrebbe essere intorno al mio punto.
Considero per un momento l’eventualità di aver sbagliato appezzamento, vado a vedere se per caso la lanterna è nella zona più somigliante al centro del mio cerchietto e – indovina? – trovo la lanterna al centro del cerchietto.

Il mio andamento verso la lanterna due è lento, molto lento, ma costante. Dalla traccia GPS sembra che io sia scesa ripetutamente dai muretti, in realtà sono sempre stata sopra, credo sia un effetto del cielo coperto, che non permetteva ai satelliti un rilevamento preciso, e del mio agitare convulsamente le braccia per restare in equilibrio. Poi sbaglio appezzamento e cerco per ore la pozza dove non è, finché non mi vengono in soccorso le orecchie, e mi affaccio al muretto per vedere da dove arriva questo fastidioso bip. Toh, la pozza. Toh, la lanterna che bippa perché la punzonano tutti.

Per andare alla terza lanterna c’è un sentiero a livello terra che mi commuove, infatti quando devo abbandonarlo sono molto restia e impiego una vita a costeggiare il muretto che conduce alla lanterna. A dire il vero, impiego una vita a costeggiarlo anche in senso contrario, per tornare sull’amato sentiero…

La strategia per la lanterna numero quattro è analoga, ma viene molto meglio perché l’ambiente che circonda la lanterna è molto meno ostile. Inoltre, per la prima volta in vita mia prendo in considerazione l’ipotesi di far caso anche a forme del terreno meno pronunciate del monte Nanos, così imbrocco la depressione dove è collocata la lanterna e praticamente me la conficco nella pancia.

Alla cinque ho un leggero brivido perché, arrivando, per un momento non la vedo, ma solo un istante dopo sono ringalluzzita e piena di fiducia nelle mie capacità di orientamento. Se non inciampo nella corda, ho un futuro nelle categorie inferiori alla W10.

La sesta lanterna è un’insospettabile agonia. Mi sfugge il sentiero che vi conduce direttamente, lo noto perché incrocio la Fantastica Farmacista (che mi ha raggiunta e superata, dandomi una manciata di quarti d’ora di distacco) che torna indietro per imboccarlo. “Poco male”, mi dico “Prendo quello dopo, che piega all’indietro; giunta dove sono, se tornassi indietro per la strada, come fa la mia amica, perderei lo stesso tempo”.
Questo sarebbe probabilmente stato vero se quello che in carta sembrava un affrontabile verde-2 non fosse stato, in realtà, una foresta vergine di ginepri, rovi, e liane acuminate.

A un certo punto – dato che non riesco a procedere né in avanti né indietro e inizio a valutare di ricorrere alla mia eccezionale dotazione di decibel per farmi soccorrere – mi distraggo perché noto, al suolo, dei cilindretti bianchi, cavi, che sembrano ossa, anche se non saprei di quale parte dello scheletro di quale animale.
Mi dico che sono sicuramente sassi e mi propongo di raccoglierne uno per mostrarlo a Zzi. Più li guardo e più mi sembrano ossa e ho un po’ di repulsione a toccarli, ma mi ripeto che sono solo sassi strani. Ne sposto uno con la punta del piede, che è più o meno l’unica parte del corpo che ancora riesco a muovere, e lo trovo sorprendentemente leggero.

È indubbiamente un osso, non so di chi, non so di cosa, non so perché ce ne siano così tanti lì, ma decido che non ci lascerò le mie (ossa), mi porto via diversi rametti fra i capelli e lascio sulle spine qualche brandello di tuta e di pelle, ma guadagno il sentierino parallelo che conduce alla lanterna. In realtà non conduce da nessuna parte, se non in un’altra giungla, ma almeno da qui la lanterna è visibile.
È piuttosto frustrante vedere la lanterna e non riuscire a raggiungerla, ma a me capita spesso e non mi lascio demoralizzare. Dopo uno studio accurato, stabilisco che la via migliore è quella dritta: tanto è verde-ventuno dappertutto, tanto fa starci dentro il meno possibile.
Io ancora non lo so, ma a questo punto ho sicuramente un bruco addosso.

Riguadagnato il sentiero, faccio un rapido inventario di dita orecchie e bulbi oculari; mi pare che ci sia tutto, e procedo verso la sette prendendo nota mentalmente di adottare l’acconciatura a chignon, quando mi saranno di nuovo cresciuti i capelli.

C’era senz’altro una strada più orientistica per raggiungere la sette, ma col cazzo che mi addentro nella vegetazione un passo più del necessario. Tornando sul sentiero cerco di dire il codice della lanterna a un ragazzino dell’accademia di polizia della Croazia, e mi accorgo che il mio croato viene fuori solo a lezione di sloveno: quando devo parlarlo, il mio cervello riesce a tirar fuori solo una pallida imitazione dello sloveno o, al massimo, un tedesco elementare.
Ad ogni modo, il giovanotto sa l’italiano, mi dice “59”, mi saluta con quel sorriso fatto a metà di compassione e a metà di scherno che, evidentemente, in Croazia, ti insegnano a militare, e raggiunge come un fulmine la compagna di corso, che aspetta sul sentiero lui e la propria si-card a lui affidata.

Il mio scatto al finish è, come al solito, bruciante, come peraltro si evince dalle foto che mi sono state scattate, tutte rimaste mosse.

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