XXIX Marcia degli Alberoni

On 5 Dicembre 2013, in Senza categoria, by Larry

“Alè, siamo fottuti!” – diranno subito i Piccoli Lettori di Zzi (e un po’ anche i miei) – “Già era sconcertante, e vagamente di cattivo gusto, che questa ci raccontasse le gare di orienteering per filo e per segno, ora, se si mette pure a raccontarci di corse “normali”, non ne usciamo vivi… andiamo su un altro blog, va’…”

FERMI LÀ!
Fermi dove siete, Piccoli Orientisti di Poca Fede.

Non abbiate timore: non sto per snocciolarvi la ventinovesima Marcia degli Alberoni argine per argine, buca per buca, canneto per canneto, refolo per refolo (e belin se ce n’erano, di refoli!); desidero semplicemente mostrarvi qualche foto della giornata – splendida sotto l’aspetto meramente meteorologico – e confermarvi che non avete avuto le traveggole quando, qualche giorno fa, avete visto il mio grafico di Attack Point sfiorare la siderale vetta dei 19 chilometri.


Come andò che Larrycette corse 18 chilometri

Non andò.
Non è ancora accaduto che io sia riuscita a correre diciotto chilometri, sia perché a un certo punto mi sono trovata davanti un muro di bora che mi teneva sul posto e (vaffanculo) ho camminato per avere qualche chance di scendere dall’argine entro l’anno, sia perché, anche se non interrompessi il ritmo al quale procedo, comunque non lo si potrebbe chiamare”correre” (cfr.: “velocità due novembre“).

In ogni caso, tragicamente orfani di gare di orienteering (era troppo bello per essere vero), abbiamo deciso che passare la domenica a trombare era brutto.
Cioè: Zzi l’ha deciso. A me sembrava un bel programma e avevo pure fatto la ceretta, ma lui ha deciso che ci potevano essere numerosi altri momenti per dimostrare il suo apprezzamento per il mio estremo sacrificio e ha sancito che la domenica mattina sarebbe stata immolata all’esigente dio della corsa.

Io gli ho detto che poteva onorare il dio della corsa quanto gli pareva e che io lo avrei aspettato a casa fedele, onorando il dio carboidrato con le mani nell’impasto di una torta; poi sono accidentalmente salita su una bilancia, ho scoperto che sono cinque chili più pesante di quando “sono grassa” e mi sono affrettata a caricare Garmin e i-pod (vedi alla voce:”Strumenti di tortura“).

 

Perché la Marcia degli Alberoni

Il programma, come al solito, era di andare a correre sull’Auremiano, il famoso monte sul quale cerchiamo di andare a correre da un paio di anni, ma sul quale non riusciamo mai ad andare perché la situazione meteo-logistica è sempre avversa.
Come da copione, anche questa volta non ci siamo riusciti, perché le previsioni del tempo dicevano che sarebbe stato soleggiato, ma freddo e molto ventoso.
La cosa, se non è un grosso problema per uno che corre, per me è un’ipoteca sulla polmonite, in quanto un percorso un tantinello più impegnativo significa fermarsi spompati dopo cinque minuti e foderare la maglietta con un pack di sudore.

Grazie al Dinamico Matematico (grazie, eh? Grazie) apprendiamo della Marcia degli Alberoni, che non è esattamente una novità e che si svolge in pianura, sul livello del mare, a Staranzano, una ridente località nei pressi di Monfalcone, potenzialmente protetta dalla bora.

Dico “potenzialmente” perché domenica 1° dicembre tirava un bel vento; ne tirava talmente tanto che, se sbattevi la scopa sul poggiolo, ti arrivava la multa dal comune di Ancona, ma questo non ci ha fatto sospettare che l’inconveniente potesse varcare i confini provinciali, e abbiamo, così, optato per quella che pareva la soluzione più confortevole.
Nonostante l’auto del Dinamico Matematico facesse una certa fatica a restare in carreggiata, continuavamo a negare l’evidenza e a rassicurarci vicendevolmente che “poi Staranzano è riparata”.
È un miracolo che ci siano ancora le portiere attaccate.

 

La ventinovesima Marcia degli Alberoni

Zzi mi aveva mandato il volantino per e-mail un paio di giorni prima, ma io mi ero ben guardata dal leggerlo, specie perché trovo demenziale che i coniugi comunichino per e-mail.

Se lo avessi fatto, avrei scoperto che “ventinovesima” era stato scritto in numeri romani e con il pallino dei numeri ordinali, e sarei andata su tutte le furie, perché non si fa: o si scrive XXIX o si scrive 29°; al massimo, proprio perché siamo in territorio asburgico, posso concedere 29., alla tedesca. XXIX° è sbagliato. Me lo ha detto la suora che era mia maestra alle elementari e non me lo sono mai dimenticato. Non intendo metterlo in dubbio adesso.

Per (s)fortuna, lo scopro solo all’altezza di Duino, quando è troppo tardi per rinunciare.

L’iscrizione costa due euro e mezzo (€ 2,50) e comprende tre ristori sul percorso e uno all’arrivo: un affare!
L’allestimento è essenziale, al limite dell’autogestito, ma per due euro e mezzo – francamente – che cazzo vuoi?
La partenza è pressappoco dove abbiamo posteggiato, non c’è l’arco, ma per quel che ne so, potrebbe anche esserci stato ed essere volato via.
Ci spogliamo, aspettiamo che prendano i satelliti e partiamo.

Al primo cartello chilometrico scopriamo di esserci abbuonati una ventina di metri, ma con tutti i chilometri che abbiamo davanti, non mi sento particolarmente in colpa.

Se guardo nel mio cuoricino, in fondo agli strati di grasso che lo foderano, mi accorgo che non mi sarei sentita in colpa neanche se fossi rimasta in letto, ora che ci penso.

Tre sono le lunghezze percorribili: 7, 13 e 18 chilometri.
La figata è che puoi decidere man mano che strada fare, a seconda di come ti senti e di che voglia ne hai, accorciando il percorso alla bisogna.

Zzi fa il comprensivo e dice che facciamo quello che mi sento, ma si capisce che si aspetta il percorso da 13 chilometri, ché se era per farne solo sette si andava a Barcola.
Io – è da giovedì 28 che penso che il 1° dicembre farò 18 chilometri, e la sera prima ho quasi fatto fatica a prendere sonno al pensiero (ho detto “quasi”).
Non so cosa mi faccia pensare di essere in grado di poterlo fare, visto che la distanza più lunga corsa finora sono stati gli 11 chilometri della Martinov Tek, in fondo ai quali sono arrivata, stremata, solo perché bisognava comunque tornare a prendere la macchina, altrimenti mi sarei fermata al primo ristoro, verso il sesto chilometro.

Okay, viste le scelte scarsamente accorte che sono capace di fare è probabile, che in qualche MOV mi sia sciroppata abbondantemente più di dieci chilometri, ma mai consapevolmente, e comunque, per male che abbia scelto, mai posso averne fatti diciotto.

Il percorso è abbastanza vario: si snoda sugli argini e sui canneti della ridente palude di Monfalcone. Detto così è deprimente, e – in effetti – se la località non è esclusiva e rinomata come la Costa Smeralda, un motivo ci sarà, ma ha il suo fascino, specie per chi, come me, la vede per la prima volta; specie in una giornata di sconvolgente limpidezza come questa, con il paesaggio colorato con una scatola di matite da 6, per cui, se usi il turchese per il cielo, poi per l’acqua ti resta solo il blu cobalto, anche se è una laguna.

Lo spirito non è eccessivamente competitivo, anzi. Sono molti quelli che fanno il percorso a piedi, con i bastoncinidelcazzo, addirittura con bambini piccoli o spingendo passeggini.
La cosa, da un lato, mi consola, perché non sarò io a rallentare gli atleti più convinti nella loro corsa, dall’altro mi dà in culo da morire, perché – anche se sei una mamma – non puoi essere così rincoglionita da non renderti conto che tu, il tuo passeggino, tuo figlio più grande che corre a zig-zag (ma ha tre anni e gambe lunghe 40 centimetri, quindi non va molto lontano) e il tuo cazzo di microcane firmato (“perché così può stare in appartamento con i bambini”) che tende il guinzaglio legato al passeggino da un lato all’altro del sentiero, formando una trappola mortale per chi sta correndo con sole e vento in faccia, state scassando la minchia da cinquanta, eterni metri, e che ne abbiamo i coglioni pieni del tuo isterico gridare “attento” al bambino, che giustamente non capisce a cosa debba stare attento e cosa debba fare, visto che tu continui a vagare a casaccio nella nebbia della tua inconsapevolezza.

Già io faccio una fatica del demonio a corricchiare, trovare un passo e assestarmi, già è uno sforzo enorme non fermarmi scoglionata ogni trenta secondi… ci manca solo la mammamona che mi intralcia, e siamo a posto.

Dopo il primo ristoro (dove nei due minuti di pausa col tè e il panettone ho sfogato tutto il mio agonismo) e il quinto chilometro, si torna indietro su una specie di argine. È lastricato di cemento, perciò anch’io posso permettermi di guardare ad altezza occhi, pascendomi del meraviglioso panorama sulle montagne innevate. Sto quasi bene.
Evidentemente obnubilata dallo sforzo, mi viene in mente che sì, è bello, ma non è mica bello come scollinare Rialto, ed è come prendere una cannonata nelle gambe.
Quando torno, devo fare un discorso al mio cervello e spiegargli che ci sono momenti in cui non è vantaggioso per nessuno mettersi a fare il Romantico Disadattato.

Per ragioni che non comprendo, da qua in poi è tutta controvento; più controvento di prima, intendo.
Non importa se il percorso curva e prendiamo un’altra direzione: riusciamo sempre ad avere il vento in faccia. Quando va di culo, arriva di lato, e c’è da stare allegri a non finire giù dall’argine.
Il Dinamico Matematico descrive efficacemente il fenomeno come la sensazione di avere uno che ti trattiene sul posto spingendoti una mano sul petto.
Io ho più la sensazione da “salita allo Zoncolan”, ma cerco di non darlo a vedere.

Il secondo ristoro arriva presto in mio soccorso.
Siccome il tè bevuto prima mi è rimbalzato nello stomaco per un paio di chilometri, facendomi provare l’ebbrezza delle prime settimane di gravidanza, stavolta non mi faccio fregare e prendo due spicchi di arancia – che sono anche idratanti – e uno di mela; la digeribilissima mela.
La mela: il frutto che mi si piazza sullo stomaco solo a guardarlo, che mi impegna i succhi gastrici come e più di una pentola di gulasch, che, mangiato a metà mattina, mi fa compagnia fino a sera e che, per l’occasione, è servito ghiacciato come la vodka.

 

Dicono che per diventare buoni filosofi occorre avere la capacità di farsi le giuste domande.
Io non sarò mai un buon filosofo, perché al bivio che permette di terminare il percorso in 13 chilometri, faccio la domanda sbagliata. E sì, che le domande giuste erano parecchie: “Vuoi smettere?”, “Ne hai abbastanza?”, “Sei stanca?”, “Vuoi andare a casa?”… tutte avrebbero implicato una risposta affermativa e la scelta di farla finita alla svelta, con un chilometraggio comunque dignitoso, per i miei standard.

Invece, al chilometro dodici, mi sono posta l’interrogativo sbagliato: “Riuscirei a tornare indietro per la stessa strada?”. E siccome la risposta era comunque affermativa, mi è perfino parso un affare, in confronto, rientrare per i restanti “soli” sei chilometri.

Purtroppo rinsavisco in breve, il vento non mi dà tregua e, al tredicesimo chilometro, la sensazione di aver comunque fatto il mio dovere mi indebolisce non poco, ma io me l’aspettavo.
Non me ne è mai fregato un cazzo della psicologia dello sport e degli psicotrucchi per migliorare la prestazione; lo sport (qualsiasi sport) è fatica gratuita cui sono moralmente contraria: meno dell’indispensabile è, nel mio caso, già parecchio più del dovuto – e in ogni caso, io ho prestazioni troppo di merda per preoccuparmi di migliorarle.

Pur restando fedele al mio motto Fammi dissodare un campo a mani nude sotto il sole, ma non farmi sollevare un bilanciere vuoto, ho previsto che il percorso per me inusitatamente lungo mi avrebbe condotto anche allo sfinimento mentale, quindi, ho fatto quello che fanno i genitori quando devono affrontare lunghi viaggi in auto con i bambini: ho portato i giocattoli.

Non potendo giocare a Ruzzle per via dei guanti di pile che avrebbero inficiato la mia performance, mi son portata dietro anche un libretto (“se posso leggere camminando, posso leggere correndo”, mi ero detta prima di vedere il fondo stradale) e l’i-pod.

Durante l’ennesima sosta-foto, estraggo dalla tasca sul culo il prezioso dispositivo. Indosso gli auricolari da corsa (hanno l’archetto che avvolge il padiglione e non cadono, io li ho presi solo perché erano arancioni) e faccio partire la musica.
Raccolgo da terra il libretto, il cellulare con i suoi componenti principali e il guanto che mi erano caduti nella manovra, ficco i primi nel culo, indosso l’ultimo e finalmente faccio ripartire anche me.

A parte il passaggio a Marina Julia, con la bora avversa a 130 km/h che letteralmente mi spostava all’indietro e mi obbligava a camminare per avere una minima chance di procedere, gli ultimi chilometri trascorrono ragionevolmente bene: sono tutta presa a dirigere la E-Street Band e a fantasticare sul prossimo tour, un po’ angosciata per la puttanata clamorosa che si annuncia essere High Hopes, un po’ elettrizzata per l’opportunità di ascoltare antiche rarità.

Siccome, però, il divertimento è pur sempre un’altra cosa e resto del parere che fosse meglio stare a letto a trombare, ho la bella idea di tormentare Zzi, cantandogli quello che ascolto.
Credo sappiate tutti quanto stonata io sia. Non credo ci sia bisogno di farvi notare che uno stonato che canta senza fiato è melodioso come un maiale sgozzato.
Ovviamente la mia preparazione atletica non mi consente di tirare molto per le lunghe la tortura, e al “and that’s alright with me” di Thunder Road (per gli eretici: minuto 1:10 della prima canzone del disco) già rinuncio.

All’ultimo ristoro mi avvicino decisa a non prendere niente, poi vedo l’acqua e mi dico che, già che Zzi e il Matematico si sono fermati, potrei prenderne giusto un ditino. Dopo il quarto bicchiere, Zzi mi trascina via; nel giro di venti metri inizio a lagnarmi perché “ho le rane nella pancia”.

Gli ultimi chilometri sono su un vialone costeggiato da tralicci, su ciascuno dei quali è dipinta la scritta “pericolo di morte“. Io capisco che, trattandosi di una manifestazione di lunga tradizione, non si stanno riferendo all’alta tensione.

Il cartello del diciassettesimo chilometro è talmente carino che gli sorrido, ma gli ultimi 6/700 metri sono un’agonia infinita.
Azzardo supporre che, se la gara durasse 20 chilometri, starei meglio, ma non me ne frega di meno, non ne posso più e basta.
Quando arrivo nel piazzale della discoteca che costituisce l’arrivo, il GPS dice 17.90, quindi giro sui tacchi e continuo a correre verso la macchina, per compensare i 20 metri che ci eravamo abbonati.

Checché ne dica RunKeeper, Garmin sostiene che smetto di correre a 18.01.
Che non sia mai che non concluda il percorso e mi tocchi rifarlo da capo!

 

 

 

[L’audio di questo post e i link per scaricare gratuitamente il file sono su Larrycette]

6 Responses to “XXIX Marcia degli Alberoni”

  1. […] ci tenete alle vostre orecchie e/o volete vedere altre foto della giornata, trovate il post nero su bianco (nel vero senso della parola) su […]

  2. oridoc ha detto:

    non capisco come la piuù orientista WC 2013 del FVG abbia mancato la gara in CS a Gemona, invece di stramazzarsi per le paludi e gli argini di Monfalcone…

  3. Giulio GMDB ha detto:

    La sensazione di avere il vento contro qualsiasi direzione si prenda era capitato anche a me diverse volte in bici. Penso sia qualcosa che abbia a che fare con maledizioni, macumbe o antipatia da parte di qualche divinità che ovviamente ci vorrebbe distesi tranquillamente sul divano invece che a fare gli sportivi in giro per il carso…

  4. […] che l’ultima volta che avevo fatto una corsa decente era il primo dicembre e che non correvo – neanche in maniera indecente – da due settimane, durante le quali […]

  5. […] mercoledì, mancano ancora diversi giorni alla competizione”. In fondo – penso – a dicembre ero riuscita a correre 18 chilometri a 7 min/km, il che, in senso assoluto, è un risultato patetico, ma per i miei standard è un’impresa. […]

  6. […] ricorderà che, raccontando la mia esperienza alla Marcia degli Alberoni, avevo accennato la fatto che, in novembre, Zzi e io eravamo andati a Izola a correre la Martinov […]

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