Orineteering, cos’è?

Bella domanda, son curiosa anche io.

Ho un’idea vaga e irrispettosa di cosa sia l’orienteering, ma dell‘orineteering non ho mai sentito parlare prima, anche se mi dà l’idea di essere la versione per maschi rudi, che vanno in giro a pisciare sulle lanterne, e più ce l’hai lungo e più probabilità hai di vincere, perché non occorre che ti avvicini più di tanto.
Scordatevi che faccia battute volgari e scontate sulla possibilità di Zzi di punzonarle tutte senza muoversi dal gazebo della partenza, scordatevelo proprio, tanto lui ha le chiavi di questo blog e mi censurerebbe.

Non è l’unica svista relativa a questa gara, e non mi sto riferendo al count-down depistante, né agli orari discordanti che i vari siti diffondevano relativamente alla prima partenza. Queste sono quisquilie che capitano a chi lavora, io mi riferisco ad un vero e proprio errore.

 

E questo errore sono io.
Vi pare che in una gara in cui le categorie sono “corto”, “medio” e “lungo”, Larry debba essere iscritta per il percorso lungo?
Vi pare?

Complotto! Congiura!
Attentato!

Ora che avete visto che ho sul desktop una cartella che si chiama “pupoli” (in triestino) e che potete, quindi, usarla contro di me ogni volta che vi faccio la punta al cazzo sull’italiano, vediamo in che altro modo posso offrire il fianco alle critiche…
Con la scelta di percorso dalla partenza alla lanterna uno, ad esempio!

 

La prima lanterna è attaccata al lampione sotto il castello, al quale si arriva per una scalinata che si prende dal lungomare, o per i caruggi interni (sempre a scale).
L’accesso ai caruggi è più diretto, ma poi si deve fare un ferro di cavallo, passare da quella specie di giardinetto parquettato con le panchine – in cui io, sistematicamente, ogni anno, volto la carta come il perno della tazza sulla giostra -, scendere, salire.
Ha molto più senso passare all’esterno, facendo qualche metro in più all’inizio, arrivando sul lungomare per salire, poi, su per la scala che conduce in bocca al lampione senza possibilità di errore.

Io, naturalmente, anche quest’anno me lo sono dimenticato e sono andata su per i caruggi, sentendomi anche figa ad aver notato  il passaggio.
Meno male che io perdo le gare all’atto dell’iscrizione, altrimenti l’avrei persa qui!

 

Dalla uno alla due non c’è molto da scegliere, è una bella tratta in salita adatta alle mie caratteristiche.

Completamente spolmonata prima di completare la prima curva di livello, arrivo al giallo che ho praticamente le visioni, mi calo con cautela per la discesa e riesco a perdere una manciata di secondi andando a dare una sbirciatina nell’angolo sbagliato; fortunatamente le mie gare non si giocano sul filo dei secondi.

Nell’andare alla tre vengo doppiata dal Celere Capellone, che oltre che fortissimo è anche indigeno.
Quando mi supera, vedo che imbocca la scelta di percorso che ho pensato anche io. Mi sento proprio un’orientista sgamata.

Mi sento talmente sgamata che penso che, avendo lui e io lo stesso percorso, se restassi salda nella scelta che avevo pensato di fare, finirei con il corrergli dietro, e così chissà per quante lanterne ancora (si noti come, a questo punto della gara, già non stia più affluendo ossigeno al cervello e io non stia minimamente tenendo conto dell’abisso di velocità che c’è fra di noi).

Ah, no!
Io voglio fare la mia gara!
Per non farmi condizionare, cambio strada: ne faccio una un po’ più lunga, che mi permette di farmi seminare.
Per sicurezza, mi perdo un po’ nei caruggi di Muggia alta, così, quando io punzono la tre, a occhio e croce il Celere Capellone è alla dodici. Beh, almeno sono riuscita nel mio proposito!

Sono talmente concentrata sul mio proposito di farmi seminare che decido di regalare alcuni minuti di vantaggio anche a tutti gli altri concorrenti con la madre di tutte le oricazzate alla lanterna numero quattro
Già avevo strappato la palma dell’oridiozia 2013 allo Speaker in un tranquillo lunedì sera, ma ho voluto sincerarmi che mi venisse riconosciuto il merito e ne ho fatta un’altra durante una gara.
Poiché questa era una gara promozionale, mi sono, in seguito, premurata di ripeterla anche in una gara con categorie regolamentari, non temete.

In pratica, una volta punzonata la tre, dovevo solo andare su a sinistra, o “a nordovest”, come dicono gli orientisti.
Io ho fatto un giretto dell’edificio perché non ero sicura di quale fosse la traversa dalla quale stavo sbucando e sentivo il bisogno di accertarlo, incurante del fatto che scoprirlo fosse del tutto irrilevante al fine di imboccare la strada giusta.

 

Le (numerose) tratte prive di scelte sono la mia salvezza, infatti arrivo alla cinque lanciata come una pallina da flipper.
Anche alla sei si potrebbe arrivare con la stessa rapidità e sicumera, peccato che sbatto contro un respingente.

Avete presente i respingenti dei flipper, no?
Non fate quelle facce, so che la maggior parte di voi è più vecchia di me, anche se in pigiama da orientista sembriamo tutti usciti dall’asilo nido.
I respingenti sono quei minuscoli supporti di plastica, centrare i quali non dava alcun punteggio e sarebbe stato oggettivamente impossibile, se fosse servito a qualcosa, tanto erano piccoli; tuttavia, poiché erano collocati ai lati del tunnel dentro il quale bisognava sparare la palla, si riusciva benissimo a sbatterci contro, vedendo (quando andava bene, ma il più delle volte perdendola per un fatale attimo di vista) la pallina schizzare dalla parte opposta della plancia di gioco, tipicamente in un punto del menga dove la si perdeva.

Uscita dal tunnel della cinque – come dicevo -, sbatto in un respingente e, anziché prendere la via diretta alla sei (che è, poi, la stessa via diretta che scientemente ho snobbato alla tre: la mia ubris è stata punita), finisco nell’inutile dedalo più a destra (“A nord, minchia! A nord!”), perdendo precisione e potenza.
Già che ci sono, sbaglio strada e faccio anche un pezzetto in più, ché se devo fare una cazzata, io, la faccio bella grossa.

 

Raggiungo la sette senza grossi traumi, solo badando ad attraversare sulle strisce.
Giunta in zona punto, ci resto un po’ male quando vedo una mezza dozzina di lanterne (sono lì per il trail-o), ma poi qualcuno punzona, denunciando quella giusta prima ancora che io mi metta a guardare dove sia il centro del cerchio e cerchi di individuare l’unica lanterna con la centralina sopra.

Quel qualcuno è il Celere Capellone.
Orca, ciò!
Lo gò ripreso!
El màto devi aver fàto qualche eròr, ma mi devo gaver corso sai forte. Ben!

(Quando penso stronzate, le penso in triestino)

E intanto punzono e mi incammino dietro al Celere dispiegando e ripiegando la carta.
Fame veder dove che sémo… dunque, mi gò de ‘ndar a la òto… dove la xè?
Epùr qua xé el campo de basket, là iera el sotoportego che iera là del giàrdin… dove cazzo la xè?
‘pèta ‘n àtimo, fàme verzer la carta…

MA PORCO BELIN!
Ma mai abelinâ che son. Le o sta andando à a dozze, perché o l’ea za à o secondo gio de farfalla, mi gò ancon d’anna-a à a ötto, ch’a l’é tutta da n’âtra parte.
Torna indrìo.
Méscite.
Nescia!
(Quando mi incazzo con me, mi incazzo in genovese)

 

Una volta girata la carta nel verso giusto e imboccata la giusta direzione, non ci vuole un’aquila per andare alla otto.
Un paio d’ali, tuttavia, non guasterebbero, ma io mi ricordo perfettamente questa salita (è il terzo anno di seguito che mi uccide) e la approccio con rispetto. Evidentemente, non abbastanza, perché quando incrocio Trieste Trasporti leggo nel suo sguardo molta apprensione per le mie sorti.
Con molta flemma, punzono e torno giù con calma, il che mi permette di tenere gli incisivi in bocca e le vene nei polsi. Visto l’andazzo della gara, mi pare un discreto risultato.

 

Alla nove si poteva andare benissimo proseguendo per la strada che scendeva dritta oltre la otto (sud-sud est), era un po’ più lunga ma meno pendente, pertanto più corribile;  Zzi ha fatto così e – split alla mano – è stato più veloce di molti altri che hanno scelto la via più breve, ma più ripida.
Io difendo la mia scelta: non ho la forza di mettere un piede davanti all’altro, cammino solo per evitare schopenauerianamente di cadere, non potrei andare più veloce, tanto vale fare la strada più corta.

Qui, la chicca da notare è che, quando mi infilo fra gli edifici per raggiungere la lanterna, rifilo l’angolo troppo bene e mi ritrovo a correre nello stretto spazio fra le siepi e il muro, in cui i miei culi passano a malapena, così devo fendere inutilmente la vegetazione per andare a punzonare.

Nota bene: la lanterna era lungo il muro, esattamente dove è segnata in carta, e non nell’angolo, dove nel disegno faccio convergere i tratti colorati: sono io che ho sbagliato a disegnare; ovviamente, anche in gara ero convinta che fosse nell’angolo e mi sono fermata a cercarla, prima di leggere la carta e guardare mezzo metro oltre la (già lunga) punta del mio naso.

 

Anche per la dieci, per mia fortuna, non ci sono scelte di percorso da fare.
Il mio passo leggero e il mio respiro disinvolto terrorizzano una ragazza che sta facendo il bancomat, ma ho la prontezza di spirito di fare la faccia dell’atleta, facendole – così – capire che non sono là per aggredirla e risparmiandomi un sacco di borsettate.

Com’è la faccia dell’atleta?
Se non lo sapete, significa che non mi avete mai vista nelle pietose condizioni in cui mi riduco quando cerco di correre. Ne sono felice, e vi prego di ricordarmi così.

Qui l’unica furbizia sarebbe stata quella di tagliare l’angolo della strada, passando per il giardino del bar del teatro Verdi (che, per inciso, è gestito dal suocero della mia amica Giraffa – poi dicono che il mondo non ruota intorno a me!), ma è un’idea buona solo sulla carta: se è bel tempo, è pieno di tavolini, e non è il caso di passarci in mezzo; se è brutto tempo, è lastricato di scivolose foglie umide, ed è ancora meno il caso di correrci sopra, quindi, anche per il futuro, scordatevi di tagliare di qua, ma venite a bere una gazzosa qui dopo la gara!

In lontananza (impiego due giorni a correre lungo il viale), vedo punzonare la decima lanterna un probabile nuovo acquisto della nostra giovane, ma rispettabile società: Paul McCartney. Sembra divertirsi, sono contenta per lui.

Finalmente anche io punzono l’undicesima lanterna, so già qual è e so già da che parte dovrò andare per la dodici.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo “e il”.

 

Alla dodici si va girando prima, molto prima della stazione delle corriere, costeggiando la Coop e salendo per le pratiche scalette adornate da agavi (cioè quelle a destra dell’edificio, non quelle private del supermercato). Da lì, si passa accanto alla tredici, non la si punzona ancora, e si va su per via Bembo, fino allo stradone su cui la lanterna è collocata.
Nel disegno, la soluzione corretta è indicata in verde (di seguito l’ingrandimento)

Io sono andata fino alla stazione delle corriere, incurante del fatto che una signora mi indicasse che “sono tutti andati di là” e che Trieste Trasporti, che stava facendo la mia stessa scelta, è perfino tornato indietro per salire da dove poc’anzi descritto.
Io non ho contato bene le curve di livello e mi sono trovata davanti una parete, sulla quale ho cominciato a cercare gli appigli per agganciare il moschettone.

Credevo che la salita verso la due fosse dura, credevo che quella per la otto fosse estrema.
Questo è il Mortirolo.
La mia testa non conosce un dialetto abbastanza aspro per insultarmi come merito per questa scelta, ma mi merito di imparare l’islandese.

Alla tredici si giungerebbe in modo molto fluido e naturale, ad avere ancora un alito di vita in corpo.

 

 

Le ultime lanterne sono “a prova di Larry”.
Si ripassa dalla farfalla, ormai so dov’è e so anche dove devo andare dopo.
Non so come facciano quelli del trail-o – così attenti al silenzio e alla massima concentrazione in gara – a dare le risposte con gli orientisti della corsa che passano loro davanti in continuazione e  zompettano fra le lanterne (io sono terrorizzata dal tiarle giù e non essere in grado di rimetterle su come erano, inficiando la gara di trail).

In ogni caso, ci riescono, perché mentre io corro a perdifiato verso la lanterna quindici, Elvio, che sta facendo o ha appena terminato – non so – la gara di trail-o, mi passa accanto passeggiando rilassato e mi supera senza sforzo.

Trovo la sedici solo perché è in una strada obbligata per la cento; a dire il vero, non me la aspetto lì, ma che cazzo mi frega? per una volta che ho una botta di culo

Siccome sono sei o sette lanterne che sono spompata e vado pianissimo, ho recuperato lo sforzo e arrivo alla cento a rotta di collo, facendo la figura di quella che sprinta.
Visti i miei risultati, equivarrebbe a dire “figura di merda”, ma, per puro caso, non è così.
In realtà, quello che il mio corpo percepisce come lo sforzo supremo per correre al massimo della velocità umana è visto dagli astanti come un’andatura a malapena dignitosa, e nessuno sospetta che mi stia impegnando tantissimo per tenere la velocità due novembre, che sta per “velocità che si tiene il due novembre accompagnando la nonna sottobraccio al cimitero a  mettere i lumini nuovi alla tomba del nonno”.

Quando arrivo trovo i neofiti CP e Paul McCartney, entrambi partiti dopo di me, già arrivati, scaricati e cambiati, a conferma della mia eccellente prestazione.
Ma io lo avevo detto subito che si stava trattando di un terribile sbaglio!

 

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