Potevamo esimerci?
Belin se potevamo, anzi: avremmo dovuto!

Invece no, l’indefesso Zzi mi estorce ancora una volta il consenso a remenarmi nel boschi dell’ex Jugoslavia e io sono troppo stremata per negarglielo, così alla fine di un torrido luglio partiamo alla volta della ridente località di Pod Mrkovcem, un buco di culo nell’entroterra di Fiume.

Approfitto per fare una precisazione sui toponimi dell’ex-Jugoslavia che fu italiana. Rijeka la chiamo Fiume, Koper la chiamo Capodistria, Poreč la chiamo Parenzo e via dicendo, non per nostalgia o perché non riconosco la più recente identità delle popolazioni della zona, bensì semplicemente perché, se c’è un nome italiano, lo uso, allo stesso modo in cui Sterzing è Vipiteno, con tutto il rispetto per l’identità altoatesina: rispetto allo stesso modo Inglesi, Belgi e Tedeschi, ma non per questo mi sogno di chiamarle London, Antwerpen o Nürnberg.
Regensburg, in effetti, fa eccezione: Ratisbona proprio non mi viene.

Viaggiamo in piacevole compagnia del Celere Capellone, che ha acconsentito ad andare con la nostra auto, anche se per lui è un po’ scomoda. Lo apprezzo molto, perché la sua macchina, che in effetti è comodissima, ciuccia come la Minetti e come una baldracca profuma, ma una baldracca alla vaniglia.
Siccome io sono di quelli che sboccano in tre curve, è preferibile che l’automobile sia inodore.

La giornata è limpida e soleggiata, pure troppo.
Per ripararmi dal sole, praticamente mi infratto nella boscaglia come le truppe cespugliate, terrorizzata come sono dal restare per sempre a macchie per via degli antibiotici che sto ancora prendendo.
La lunga terapia di antibiotici cui mi sto sottoponendo è la Scusa per la puttanate di questa gara.

Essa, infatti, ha avuto luogo il sabato successivo al lunedì dell’apicectomia, e verso nell’eccellente stato di forma di quella che non si è tolta il ghiaccio dalla faccia per 48 ore, ha assunto la dose massima di antidolorifico consentita, è al quattordicesimo giorno di antibiotici e non è uscita di casa per quattro giorni; ma che, in compenso, da quando è potuta uscire di casa ha scoperto un’interessante connessione fra la mascella della semiarcata destra e il piede del medesimo lato del corpo, perché ogni volta che lo appoggia a terra genera una scossa elettrica che scarica proprio nel dente operato.

Dopo aver scartato l’idea di fare la gara in monopattino, in modo da non appoggiare mai a terra il piede destro, parto con l’intenzione di andare molto piano, limitarmi a camminare, consapevole di non avere alcuna chance di terminare la gara.
Vale a dire, con lo stesso atteggiamento che avrei avuto se fossi stata bene.

Dal punto di vista tecnico, ho avuto solo due problemi, in questa gara: azimut imprecisi con la bussola e incapacità di leggere la carta. Non fossero gli unici requisiti necessari a trovare le lanterne, non sarei andata tanto male.
Ho avuto cura di commettere questi errori su tutte le tratte, per essere sicura di non fare le cose a metà.

Dal punto di vista atletico, ho fatto una fatica boia a stare in piedi, perché sono inciampata in qualsiasi cosa fosse sul terreno. Il bosco bianco aveva un fondo coperto d’erba alta e ingarbugliata, l’erba dei prati gialli mi arrivava alle ascelle, dei verdi – pochi, invero – neanche farei menzione.

Restano i sentieri: i numerosi, rassicuranti sentieri.
Rassicuranti una sega: in parte erano ridotti a paludi, in parte erano ostruiti da alberi caduti, cataste di sterpaglie e/o una materia scura simile a fango, che dall’odore e dalla quantità di mosche poteva solo essere merda. Per la restante parte – la maggiore – erano lastricati di rami spezzati, che rullavano sotto le suole come i legni per l’alaggio.

Se dico di aver fatto cinque passi di seguito senza incespicare, è perché arrotondo per eccesso.

Il fotoromanzo della gara

 Lanterna 1

 

In partenza il piano è “essere cauti e seguire i sentieri”
Al primo incrocio, mi perdo.
In realtà sono sul sentiero giusto, ma, poiché non ne sono certa al cento per cento, lo percorro una dozzina di volte avanti e indietro per sincerarmi di esser proprio lì.
Quando non riesco più a dubitarne, mi avventuro nella boscaglia.
Magari non sono tanto esperta nella lettura della carta, ma ho recentemente capito l’azimut, perciò sono certa di piombare sul punto con precisione.

Infatti, piombo con precisione sulla seconda lanterna.
Tiro un azimut nella direzione opposta, torno indietro e mi remeno in quelli che penso essere i paraggi del punto per un bel po’; poi un po’ di gente la trova e io comincio a farmi un’idea su dove possa essere collocata.

 Lanterne 2 e 3

 

So dov’è la due, l’ho vista prima, il terreno è accidentato e la traiettoria non proprio pulitissima, ma in qualche modo ci arrivo.

Anche per la tre tiro a indovinare la direzione, che per puro culo combacia, ma non so quale possa essere la radice presso la quale è stata piazzata.
C’è una radice sradicata grande come la casa dell’orco Shrek, ma non sono sicura…
Ci sono dozzine di orientisti che punzonano e se ne vanno, ma non sono sicura…

Controllo bene che non sia proprio da nessuna altra parte e poi punzono anche io.

Lanterna 4

 

Per questa lanterna ho un piano perfetto, che prevede il percorso su sentiero.
C’è addirittura un tratto di sentiero mezzo liscio, percorrendo il quale, nel dubbio, inciampo comunque su una roccia affiorante, facendomi un male becco all’alluce sinistro.
Per i successivi cinquanta metri, il mio solo pensiero è “speriamo che non mi venga l’unghia nera, altrimenti devo rompermi i coglioni con la pedicure tutta l’estate”. Poi rammento che io non porto scarpe aperte neanche a Ferragosto, perché ho un anacronistico pudore dei piedi e uno stile molto snob, per cui ci possono essere anche quarantacinque gradi, che io mi metto le scarpe con almeno la punta chiusa.

Poi mi marciscono i piedi, si piagano, lascio scie di sangue in mezzo a piazza Unità… non importa! Io sono una signora e in giro in ciabatte non ci vado. Ho giusto due paia di sandali con una minuscola apertura in punta, ma sono entrambi dotati di un tacco fascista che proprio non può in alcun modo farli assimilare ad una ciabatta.
Ogni estate, dal chiuso delle mie calzature di dolore, guardo con invidia coloro che si sono affrancati dall’estetica imperialista e vivono liberi e felici nelle loro Birkenstock.

A metà strada trovo Zzi, che mi conferma che siamo dove penso.
Mi chiede anche come sto, e mi ricordo che ho una grave ferita in bocca.
Da questo momento in poi sto malissimo e procedo con una mano sempre sulla guancia, tanto per essere più aerodinamica.

Lanterne 5 e 6

Alla 5 vado seguendo il sentiero, con il proposito di buttarmi nel bosco non appena esso diventa più piccolo, come indicato in carta.
Peccato io non abbia fatto i conti con la rappresentazione non proprio fedelissima delle proporzioni dei sentieri e la mia non esattamente spiccatissima capacità di lettura del terreno, a causa delle quali reputo che il sentiero si rimpicciolisca almeno cinque volte prima di quando si rimpicciolisce davvero.
Poi, finalmente, arriva un grappolo di orientisti, e li seguo.

Alla sei arrivo bene; lenta come la rotazione di Plutone, ma bene.
In uscita dalla cinque – addirittura – do indicazioni su dove ci troviamo a uno che non le voleva, ma ci tenevo a far sapere che io lo sapevo.

Lanterna 7

 

Sempre con la circospezione di un ninja, percorro il lungo sentiero che dalla sei conduce alla sette.
Non sbaglio, ma – per usare un tecnicismo – grazie al cazzo!

Lanterna 8

 

Questa cosa di seguire i sentieri mi sembra che funzioni e, poiché l’organizzazione ne ha disposto uno apposito, che conduce dritti dritti sulla lanterna successiva, procedo lancia in resta e guancia in mano.

Quando dal bosco sbuco sul sentiero, vedo che ce ne sono molti che si dipartono da dove sono, così spendo qualche istante a sincerarmi di imboccare quello giusto.
È importante non intraprendere le strade in modo avventato, specialmente su una carta così!
Lascio alla mia sinistra il cumulo di letame e procedo su quello che incontrovertibilmente è il sentiero giusto.
Procedo e procedo, e tutti i dettagli corrispondono.

Curiosamente, la lanterna non c’è.
Dopo aver girato un po’ a caso in quelli che suppongo essere i paraggi della lanterna, finalmente la trovo, ma il suo codice mi rivela che non è la mia.
Dannata sgualdrina!

Controllo la descrizione punti, non fa neppure parte del mio percorso, la lurida zoccola.
Le vocine nella mia testa si accorgono che ci siamo persi e iniziano a prendermi per il culo, ma in quella altri due atleti chiedono a un terzo dove ci troviamo.

Io mi vergogno ad andare dal terzo – che peraltro stava correndo, non era il tipo di orientista da fermare, anche se era palesa che sapeva dove fossimo – e fargli perdere altro tempo, così lo lascio andare e punto la femmina con lo sguardo sveglio.
Deve avermi letto nel pensiero, perché si dilegua in un batter d’occhio. Mi rivolgo, allora, al maschio con la schiena sudata… beh, non è che io sembri appena uscita dalla beauty-farm, probabilmente non sembro neanche uscita dalla civiltà.

Il cinghiale mi indica due crocette verdi in tanta mona; io non me ne capacito, ma non discuto, mi riposiziono e vado alla otto seguendo il sentiero, che ora ha un’allure molto – ma molto – più insidiosa, e lo percorro cauta come se mi di dovesse aprire una voragine sotto i piedi da un momento all’altro.

Quando arrivo all’incrocio con il sentiero grande, lo abbandono per cercare la lanterna nel bosco.
La lanterna non c’è.
Minchia, che coglioni!

Da capo: torna all’incrocio, controlla dov’è il nord in carta tanto per non fare un altro “centottanta”, ripiega la carta, collega con la bussola il punto dove sei con quello in cui vuoi andare, tieni carta e bussola parallele al terreno altrimenti l’ago va storto, gira come un’idiota su te stessa finché l’ago della bussola non è parallelo alle linee del nord in carta, con la parte rossa rivolta al nord della carta, e procedi nella direzione che hai davanti agli occhi; guarda davanti, per l’amor di Dio.
Cazzo, è lì, e dove ero prima.
Ci torno.
Non c’è un cazzo, come non c’era prima.

Per l’ultima volta: orna all’incrocio, controlla dov’è il nord in carta tanto per non fare un altro “centottanta”, ripiega la carta, collega con la bussola il punto dove sei con quello in cui vuoi andare, tieni carta e bussola parallele al terreno altrimenti l’ago va storto, gira come un’idiota su te stessa finché l’ago della bussola non è parallelo alle linee del nord in carta, con la parte rossa rivolta al nord della carta, e procedi nella direzione che hai davanti agli occhi; sempre guardando davanti.
Sempre nello stesso punto torno.

Poi odo il richiamo.
Sono quasi sicura che sia un’allucinazione, date le condizioni psicofisiche in cui verso, ma vado lo stesso a vedere da dove proviene il verso di lanterna che ho sentito.
Ah, non può essere di là, c’è un altro sentiero…
… un altro sentiero che non è in carta….
… “un altro sentiero che non è in carta” un cazzo, è il sentiero che credevo di avere già incrociato; è da questo secondo incrocio che, tirando un azimut, anche approssimativo, si arriva sulla lanterna.

Ancora non ho capito a che incrocio mi ero fermata io.

 

Lanterne 9 e 10

 

 

Penso che peggio di così non può andare, ma mi sbaglio.

Rasento la nove senza vederla, mi accorgo di essere lunga perché finisco sul sentiero, torno indietro e non la trovo.
Ci riprovo, partendo dal sentiero, ma nisba anche stavolta.
Vago senza meta su un altro sentiero, tanto per vedere dove sono; riparto dalla casa, non trovo un cazzo comunque.
Comincio ad avere le balle vagamente piene di non trovare proprio un belino di niente.

Va bene che sono stazza, va bene che non è una competizione minimamente alla mia portata, va bene che ho caldo, mal di denti, mal di piedi e psicosi dell’iperpigmentazione da antibiotico, ma almeno una, per sbaglio, per la legge dei grandi numeri, mi aspettavo di trovarla.

Dai e dai, i punti da dove approcciare la lanterna sono in numero finito, io li provo tutti e alla fine trovo quello giusto, punzono e vado alla dieci, che so dov’è perché è scritto sulla carta e ho sentito delle ragazze spagnole che ne parlavano. Forse erano venete.

Dignitosa resa

 

La lanterna 11 è in tanta mona, ma so come arrivarci. C’è un modo cauto anche per raggiungere questo punto, solo che, ormai, dei modi cauti e delle scelte “sicure” su sentiero non mi fido più molto.
Sono in gara da due ore e quaranta e ho fatto metà percorso.
Ben che vada, punzono la undici in venti minuti; in ogni caso, non finirò entro il tempo massimo (che probabilmente è già scaduto). Sono vicina alla strada che conduce al finish, se mi ritiro dopo la 11, devo fare un’altra dozzina di chilomentri per tornare indietro.
Di tornare indietro passando per le lanterne non se ne parla, perché inizieranno a toglierle prima che io le punzoni tutte.

Ho caldo, mal di denti, mal di piedi, psicosi dell’iperpigmentazione da antibiotico e – ora che ci penso – una sete della madonna.
Io mi ritiro adesso!

Così intraprendo l’assolata strada per il ritrovo, lastricata dell’amico Asfalto.
Al praticello, mi ricordo che c’è un sentiero che porta nel bosco e – forse – conduce alla 11… forse posso ancora fare un tentativo.
Manco il primo bivio e mi accorgo che sto tornando sulla strada: capisco che non è cosa per me e finisco la curva, sbucando di nuovo sulla strada asfaltata e rinsaldata nel mio proposito di ritirarmi.
Vacillo ancora una volta, quando incontro la strada grande, che sembra essere una via infallibile, ma riguardando la carta è evidente che non è così.

A un certo punto, uno fa più bella figura a smettere, e far mostra di aver capito di non essere capace, che a ostinarsi a provare e dimostrare di non aver neanche capito cosa sta facendo davvero.

“Non voglio più sentir parlare di orienteering per un mese”

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