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Conoscete tutti la storia: Zeus, divino puttaniere, aveva deciso di farsi Io, anche se stavolta non era colpa sua, perché era sotto gli effetti psicotropi di un intruglio di Iunce.
Siccome sua moglie ne aveva le palle piene delle sue scappatelle, Zeus doveva essere molto scaltro quando andava a trovare le sue concubine e assumeva, perciò, innumerevoli sembianza. Per Io aveva scelto il costume da nuvola.

Era, però, non era tanto fessa (infatti, già che c’era, per non saper né leggere né scrivere, ha trasformato Iunce in uccello, così impara a far bere filtri d’amore ai mariti delle altre), così Zeus ha dovuto nascondere la sua amata.
E cosa fa l’arguto padre degli dei dell’Olimpo (dal cui cranio nacque nientemeno la sapiente Atena) per nascondere una ragazza? La piazza su una delle numerosissime cazzo di isolacce della Grecia? No (forse timoroso dei pescatori).
La cela in una grotta, in uno dei bucolici boschi cantati dai poeti? Nemmeno.
La trasforma in giumenta, ecco cosa fa.
E certo. Chi non avrebbe fatto lo stesso? Ha per le mani una giovane sacerdotessa e la tramuta in una mucca, che genialata, vero? Chissà l’entusiasmo di Io quando si è ritrovata nel suo nuovo corpo, non avrà avuto parole per ringraziare l’amante.

Il piano, oltretutto, è andato in vacca – per restare in tema – in men che non si dica, perché Era se n’è accorta subito e ha mandata un tafano a pungolare continuamente l’incolpevole giovenca, che è fuggita, inseguita dall’insetto, scappando dappertutto, per tutta l’Europa e l’Asia Minore; poi si è fermata, perché ai Greci non risultavano molte altre terre.

Durante uno dei formidabili allenamenti organizzati da Zzi, con la scusa di andare a correre insieme ai membri della nostra giovane, ma rispettabile società, dei quali sono quasi sempre vittima solo io, ho esperito il tormento della sventurata fanciulla.

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Allenamento a San Servolo (Socerb)

È il 21 giugno, lo so perché per Google è il primo giorno d’estate, e si sente.
Non che osiamo lamentarci, visto che c’è stato un tempo da lupi fino alla settimana precedente, ma siamo almeno abbastanza lucidi da non andare a correre sull’assolato lungomare (anche perché è lastricato di bagnanti) e da scegliere un posto potenzialmente fresco.

San Servolo sembra l’ideale. Non mi riferisco, ovviamente, all’isola veneziana del manicomio, bensì al castello in provincia di Capodistria (Socerb, in sloveno), dalla cui rupe a 350 metri sul livello del mare si gettano i parapendii, le cui altitudine e vegetazione frondosa dovrebbero essere garanzia di sollievo dalla canicola.

Viene con noi Marko con la K, futuro papà di una creatura il cui sesso resterà una sopresa fino all’ultimo, ma che io premo per battezzare Asfalto.
Dopo i bip asincroni dei rispettivi dispositivi, partiamo a passo di lumaca lungo il sentiero che si addentra in un bosco a tratti molto aperto, fra i pascoli.
L’ambiente è molto bello, ed è un luogo molto gradevole anche per passeggiare, tant’è che, se il tempo è bello, solitamente ci portiamo gli amici in visita, per vantarci delle bellezze naturali dei dintorni di Trieste.

Fa caldo, ma neanche tanto. Marko, che come Zzi sta andando piano per aspettarmi, è comunque troppo veloce per me, e non ho la minima possibilità di mantenere il suo ritmo, specie se continuiamo a parlare del mercato delle scarpe da bici, ma almeno all’inizio ci provo; se non altro, avrò scoperto quanto poco riesco a tenere una velocità “x”, ove x > passolarry.

Insomma, è ovvio che preferirei essere sul divano a cazzeggiare su Twitter, ma dovendo proprio correre, tra il paesaggio e la compagnia, c’è quasi da stare alle…

SPLAT

Splat? Diranno subito i miei Piccoli Lettori.
Splat, minchia, sì, splat.

Splat clamoroso, misterioso e tutt’ora irrisolto.
La caduta è avvenuta, infatti, su un tratto liscio di sentiero, con piena visibilità. Forse mi sono scesi gli occhiali sul naso e non ho visto qualcosa, ma non ho sentito alcun piede sbattere da nessuna parte.
Forse sono solo scivolata sul brecciolino.
Fatto sta che un attimo prima cercavo di consolarmi per la fatica con la prospettiva dell’indomani a mollo nell’acqua parentina e  un attimo dopo facevo la conta dei danni, terrorizzata di aver compromesso l’imminente vacanza.

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Nella caduta, che a giudicare dai punti impattati dev’essere stata piuttosto acrobatica, ci siamo giocati:
– ginocchio destro (profondamente)
– ginocchio sinistro
– coscia sinistra su su fino al fianco
– palmo della mano destra
– polso della mano sinistra
– braccio sinistro (nella figura non si vede perché è dietro)

Zzi ha cercato di acchiapparmi, ma pare io abbia fatto una specie di avvitamento in aria, per cui gli sono sfuggita da sotto le mani, ritrovandomi sdraiata sul fianco sinistro. Inspiegabilmente, le ferite sono su quello destro.
Siccome cado con una certa frequenza, e siccome ho una drammatica storia odontoiatrica alle spalle, la mia unica preoccupazione, in volo, è parare la faccia, e – grazie alla mia lunga esperienza – ce la faccio anche stavolta.

Reagisco sobriamente con un urlo di rabbia udito fino a Pola, poi mi tirano su e stoicamente mi accingo nuovamente a correre.
Lo faccio solo perché devo mantenere tutto funzionante: tra sei giorni partiamo per Parigi e non posso permettermi di farmi gonfiare le ginocchia o avere altri acciacchi, quindi il piano è “finta di niente, ignorare per evitare”.
“Torniamo indietro”
“No, corriamo”
“Sei piena di ghiaia, devi lavarti”
“Mi sciacquerò in un ruscello, ho letto che quelli che corrono fanno così”
“Lascia perdere i tuoi lettori squilibrati e torniamo alla macchina”

Tornare correndo mi pare un buon compromesso, e questo è il primo giro che facciamo.

Marko mi presta le pinzette del coltellino svizzero per togliermi i granellini di sabbia dalla mano, poi torna in disparte a trafficare col cellulare. Comprendo in quel momento che ha terrore del sangue e che a momenti dovevamo soccorrere lui.

Appurato che non mi sono trafitta l’arteria femorale, siamo pronti per ripartire. Io sto davanti, così Marko non vede il sangue, ma non troppo, così se vado di nuovo lunga, forse Zzi riesce ad acchiapparmi.

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Dopo neanche un chilometro, la natura diventa improvvisamente ostile e il percorso è popolato di moscerini e mosche.
Che schifo, sono talmente tanti che danno fastidio anche a Zzi e Marko, figuriamoci a me che non tollero alcun invertebrato.

Proseguiamo convinti che in breve supereremo la zona infestata, ma non facciamo che addentrarci in aree ancora più infestate. Ci siamo sbagliati, però: non sono mosche, sono tafani, infatti non si scrollano di dosso e Marko è già stato morso. Anche correndo, non ne abbiamo mai meno di tre addosso e l’unico motivo per cui non mi faccio venire una crisi isterica è che sono troppo impegnata a dolermi per le sbucciature sulle ginocchia e nella mano.

Finalmente svoltiamo nella pineta, dove l’ombra e la frescura sicuramente ci difenderanno da queste bestiacce.
Macché: gli insetti non accennano a diminuire, né a darci pace, in compenso il sentiero è tutto una pozza di fango.
Sembra una palude amazzonica.

Io mi scazzo di correre, perché mi viene il fiatone, ma non posso respirare con la bocca, altrimenti ingoio di tutto; i più atletici giungono alla stessa conclusione con il dovuto ritardo dato dalla loro migliore forma fisica, e ce ne torniamo lemme lemme alla macchina con le pive nel sacco, agitando le braccia come zombie impazziti per farci un varco fra i tabanidi e incazzati neri.

Questi i dettagli della drammatica uscita

 

 

 

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